GLI ANNI SETTANTA
Nel dicembre del ’69 killer travestiti da poliziotti firmarono la strage di viale Lazio (quattro morti), sparando all’impazzata negli uffici di un costruttore. Nel settembre del ’70 venne sequestrato e ucciso il giornalista Mauro De Mauro, il 5 maggio del ’71 fu assassinato il procuratore Pietro Scaglione. La reazione di politici, magistrati e forze dell’ordine a una simile offensiva si risolse, nel giro di pochi anni, in un buco nell’acqua. Nel 1973 ai settantacinque imputati per l’omicidio Scaglione vennero inflitte pene minime e solo per associazione a delinquere. Nel ’74 il processo per la cosiddetta “nuova mafia” si concluse con l’assoluzione di quarantasei imputati. Lo stesso anno il primo collaboratore della giustizia, Leonardo Vitale, confessò, ma al processo venne creduto e condannato solo per le accuse che lo riguardavano. Per le altre fu ritenuto seminfermo di mente: sconterà la pena in manicomio e, una volta dimesso nell’84, sarà ucciso dai killer. Nel 1976, al “processo dei 114”, in appello vennero inflitte solo lievi condanne. Assolti Totò Riina e i Greco. Lo stesso anno concluse i lavori (iniziati nel ’63) la commissione parlamentare antimafia, tra mille polemiche, con atti posti sotto segreto e controrelazioni di minoranza.
Così, sul finire del decennio, riprese la mattanza: nel 1977 a Ficuzza fu ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, nel ’78 il militante di Democrazia Proletaria Peppino Impastato, il 26 gennaio del ’79 il giornalista Mario Francese. E nello stesso anno: Michele Reina, segretario palermitano della Dc (marzo), Boris Giuliano, vicequestore (luglio), il consigliere istruttore Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso (settembre). Il 6 gennaio 1980 cadde il presidente della Regione, Piersanti Mattarella.
All’inizio degli anni Settanta la Chiesa palermitana stentava ad assorbire lo shock delle novità conciliari. Dopo la breve parentesi di Francesco Carpino, conclusa con le dimissioni, il timone della diocesi era stato preso da Salvatore Pappalardo nel dicembre del 1970. Ecco come lui stesso rievoca quei tempi: “L’inizio del decennio fu per tutta la Chiesa nel mondo ed anche nella nostra Chiesa palermitana, un periodo di difficile assestamento, per la necessità di bene intendere ed applicare la rinnovata mentalità ed organizzazione che i documenti del Vaticano II richiedevano. Documenti che non furono tutti di facile comprensione ed assimilazione, sia da parte del clero che del popolo cristiano. La nostra diocesi dovette attrezzarsi per tradurre in atto quelle che erano le più immediate esigenze” (13). La forte spinta di rinnovamento portò, attraverso un percorso di anni, a una più concreta attenzione alle realtà sociali. Ricorda ancora il cardinale Pappalardo: “Ci siamo sforzati di promuovere l’unità di cui parla Cristo (ut unum sint), trasformando le nostre parrocchie, da cosiddette “stazioni di servizio” dove ricevere documenti e sacramenti, in luoghi di formazione cristiana, culturale, spirituale, di testimonianza cristiana nella fraterna carità”. La spinta verso gli ultimi attraversò i centri sociali della Missione Palermo e l’azione della Caritas, i convegni e i piani pastorali per far sì che – osserva il cardinale – “l’istruzione della fede si vedesse sempre abbinata ad una azione promozionale per ogni settore della vita umana”. A chiusura del decennio, proprio a simboleggiare il “decentramento cristiano” e l’attenzione alle periferie, si arrivò alla formazione dei sei vicariati. All’interno della Chiesa il percorso verso l’impegno cristiano sul territorio non fu però lineare: ancora nel 1976 se ne discuteva al convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”. Ricorda don Stabile: “Si pose questo interrogativo: il compito di evangelizzazione della Chiesa era già di per sé una promozione umana oppure si trattava di compiti diversi? Si discuteva quindi se la “e” tra le parole del tema del convegno fosse solo una congiunzione oppure la voce del verbo essere. Non era problema di poco conto perché si trattava di stabilire se l’impegno per la promozione umana era parte integrante dell’azione della Chiesa o se invece la Chiesa nell’opera di promozione umana svolgeva un compito di supplenza alle carenze dello Stato e della società civile”. Di conseguenza “l’annunzio cristiano alla luce del Vaticano II e la scelta degli ultimi non potevano non comportare un giudizio sulle prassi sociali e sulle istituzioni che insieme generavano le condizioni delle ingiustizie. Per essere fedele all’annunzio evangelico la Chiesa doveva essere libera dal potere e critica. In una parte del clero e del laicato maturò quindi l’impegno di liberare la Chiesa stessa dal collateralismo che faceva apparire le strutture ecclesiastiche quasi supporto clientelare del partito politico” (14)
Durante gli anni Settanta, quindi, due questioni furono centrali nel dibattito sulle nuove strade che la Chiesa siciliana doveva percorrere dopo il Concilio: il collateralismo a sostegno della Dc e l’emergenza mafiosa, scandita dall’impressionante serie di delitti. Apparivano sempre più compromesse le correnti dc che facevano capo a Vito Ciancimino (divenuto sindaco all’inizio del decennio) e a Salvo Lima. Così come era evidente che nei quartieri periferici (e non solo) la mafia si serviva dei riti religiosi per legittimare davanti al popolo la propria potenza. Secondo don Stabile, esaminando i documenti dell’epoca, è evidente “che agli inizi del decennio ci fu una maggiore libertà di denuncia da parte dei vescovi, favorita dal nuovo spirito conciliare, dalla degenerazione del costume morale, dalla crisi sociale, dall’affievolimento della paura del comunismo, dalla crisi della Dc”. Eppure, secondo lo storico, mancò “anche in questo caso una lettura organica da parte dei vescovi del fatto mafioso, a parte una più esplicita e insistente denuncia. La mafia fu ancora una volta considerata un male morale e sociale e veniva elencata tra i problemi della Sicilia, fermandosi alle soglie del rapporto con la politica” (15).
L’eco di questi ritardi nell’analisi ecclesiale si concretizzò in un dibattito simile a quello su evangelizzazione e promozione umana. Ci si chiedeva, in sostanza, se l’impegno della Chiesa per la liberazione dalla criminalità organizzata fosse intrinseco alla sua missione evangelizzatrice (visto che la mafia è in sostanza la negazione del Vangelo). Oppure se la questione mafiosa “fosse solo un problema che riguarda la società civile, al quale la Chiesa con la sua condanna morale del male e con l’invito a una coerenza etica dà una mano, ma la cui soluzione spetta allo Stato e alla società stessa”. La questione rimase aperta fino agli anni Ottanta. Ancora nel 1983 la rivista “Segno” (nata nel ’74 attorno al redentorista Nino Fasullo e punto di riferimento del cattolicesimo del dissenso) organizzava un ampio dibattito sul tema: “La mafia è un problema che la Chiesa deve affrontare?”. Proprio nel ’74, il 10 ottobre, vede la luce il documento dei vescovi siciliani forse più significativo dell’epoca, redatto da monsignor Giuseppe Petralia, segretario della Cesi, in cui vengono esaminati i “mali sociali” dell’Isola. La crisi dell’agricoltura e dell’artigianato; l’emigrazione di massa; le larghe frange di analfabetismo e di inqualificazione professionale; la disoccupazione e la sottoccupazione; la situazione infelice delle zone colpite dal terremoto; il livello minimo del reddito medio. E infine si parla “della fosca macchia della mafia, che presume da una parte di risolvere i problemi della giustizia e dell’onore con le forme più grossolane e delittuose mentre, dall’altra, si accampa nei settori dell’industria edilizia e dei mercati con sistemi aggiornati di gangsterismo” (16).
Al centro della innegabile svolta degli anni Settanta c’è il contributo del cardinale Pappalardo. Il prelato tiene a sottolineare, però, come i ritardi nella comprensione del fenomeno fossero all’epoca di tutta la società e di gran parte della stessa magistratura. Nell’omelia per il suo 25° di episcopato si è espresso così: “Non mancò in quegli anni bui la voce della Chiesa che di volta in volta condannava inequivocabilmente i delitti commessi e le oscure trame mafiose che ne erano all’origine. Anche se sulla loro consistenza, qualificazione ed estensione non si avevano allora le informazioni e le prove divenute in appresso palesi”. Il riferimento è alle confessioni dei pentiti all’inizio degli anni Ottanta, tra cui Tommaso Buscetta, che tracciarono per la prima volta il quadro delle regole segrete e delle complicità politiche di Cosa Nostra.
Il cardinale traccia anche un’autocritica a nome della Chiesa: “Condividendo, probabilmente, una minore diffusa sensibilità, anche le comunità ecclesiali e i loro responsabili non hanno percepito, per qualche tempo e in diversa misura, che l’appartenenza o la contiguità con la mafia non erano compatibili con la professione della fede e che la mafia era di per se stessa una realtà contraddittoria al Vangelo”. Le radici della mancata percezione vengono individuate nel ruolo di controllo sociale che ebbe la mafia nelle campagne e poi nelle città siciliane. Riflette infatti Pappalardo: “Forse si pensò che si potesse scindere l’attività criminale della mafia (non sempre così percepibile come lo è oggi) da quella mediazione sociale che essa esercitava, contribuendo talora a risolvere, in maniera pacifica, contrasti e difficoltà che si ponevano sia sul piano dei rapporti privati che di quelli pubblici. In tempi e circostanze in cui è stata carente la presenza dello Stato e debole la sua capacità di amministrare rapidamente la giustizia, si è verificato che la mafia acquistasse prestigio ed esercitasse potere”.
Non è questa la sede per trarre le somme dell’episcopato di Pappalardo. Sul tema va però almeno notato questo giudizio che viene da Saverio Lodato, un giornalista laico, inviato dell’Unità: “Quando gli storici si dedicheranno a questo bilancio, non potranno fare a meno di convenire su questo punto: è stato lui per la prima volta, a richiamare l’attenzione delle grandi masse cattoliche sul fenomeno mafioso, dimostrando una lungimiranza che ai massimi rappresentanti delle istituzioni statali fece difetto. Poi, naturalmente, gli storici potranno dividersi nel giudizio su questa o quella fase del suo magistero, sul contenuto di questa o quella omelia…Resterà comunque il ritratto di un cardinale di fine cultura religiosa, attento ai fermenti del suo tempo, costantemente preoccupato dalla necessità di non perdere pezzi della sua Chiesa lungo un faticoso cammino di liberazione e presa di coscienza” (17).
Così, sul finire del decennio, riprese la mattanza: nel 1977 a Ficuzza fu ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, nel ’78 il militante di Democrazia Proletaria Peppino Impastato, il 26 gennaio del ’79 il giornalista Mario Francese. E nello stesso anno: Michele Reina, segretario palermitano della Dc (marzo), Boris Giuliano, vicequestore (luglio), il consigliere istruttore Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso (settembre). Il 6 gennaio 1980 cadde il presidente della Regione, Piersanti Mattarella.
All’inizio degli anni Settanta la Chiesa palermitana stentava ad assorbire lo shock delle novità conciliari. Dopo la breve parentesi di Francesco Carpino, conclusa con le dimissioni, il timone della diocesi era stato preso da Salvatore Pappalardo nel dicembre del 1970. Ecco come lui stesso rievoca quei tempi: “L’inizio del decennio fu per tutta la Chiesa nel mondo ed anche nella nostra Chiesa palermitana, un periodo di difficile assestamento, per la necessità di bene intendere ed applicare la rinnovata mentalità ed organizzazione che i documenti del Vaticano II richiedevano. Documenti che non furono tutti di facile comprensione ed assimilazione, sia da parte del clero che del popolo cristiano. La nostra diocesi dovette attrezzarsi per tradurre in atto quelle che erano le più immediate esigenze” (13). La forte spinta di rinnovamento portò, attraverso un percorso di anni, a una più concreta attenzione alle realtà sociali. Ricorda ancora il cardinale Pappalardo: “Ci siamo sforzati di promuovere l’unità di cui parla Cristo (ut unum sint), trasformando le nostre parrocchie, da cosiddette “stazioni di servizio” dove ricevere documenti e sacramenti, in luoghi di formazione cristiana, culturale, spirituale, di testimonianza cristiana nella fraterna carità”. La spinta verso gli ultimi attraversò i centri sociali della Missione Palermo e l’azione della Caritas, i convegni e i piani pastorali per far sì che – osserva il cardinale – “l’istruzione della fede si vedesse sempre abbinata ad una azione promozionale per ogni settore della vita umana”. A chiusura del decennio, proprio a simboleggiare il “decentramento cristiano” e l’attenzione alle periferie, si arrivò alla formazione dei sei vicariati. All’interno della Chiesa il percorso verso l’impegno cristiano sul territorio non fu però lineare: ancora nel 1976 se ne discuteva al convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”. Ricorda don Stabile: “Si pose questo interrogativo: il compito di evangelizzazione della Chiesa era già di per sé una promozione umana oppure si trattava di compiti diversi? Si discuteva quindi se la “e” tra le parole del tema del convegno fosse solo una congiunzione oppure la voce del verbo essere. Non era problema di poco conto perché si trattava di stabilire se l’impegno per la promozione umana era parte integrante dell’azione della Chiesa o se invece la Chiesa nell’opera di promozione umana svolgeva un compito di supplenza alle carenze dello Stato e della società civile”. Di conseguenza “l’annunzio cristiano alla luce del Vaticano II e la scelta degli ultimi non potevano non comportare un giudizio sulle prassi sociali e sulle istituzioni che insieme generavano le condizioni delle ingiustizie. Per essere fedele all’annunzio evangelico la Chiesa doveva essere libera dal potere e critica. In una parte del clero e del laicato maturò quindi l’impegno di liberare la Chiesa stessa dal collateralismo che faceva apparire le strutture ecclesiastiche quasi supporto clientelare del partito politico” (14)
Durante gli anni Settanta, quindi, due questioni furono centrali nel dibattito sulle nuove strade che la Chiesa siciliana doveva percorrere dopo il Concilio: il collateralismo a sostegno della Dc e l’emergenza mafiosa, scandita dall’impressionante serie di delitti. Apparivano sempre più compromesse le correnti dc che facevano capo a Vito Ciancimino (divenuto sindaco all’inizio del decennio) e a Salvo Lima. Così come era evidente che nei quartieri periferici (e non solo) la mafia si serviva dei riti religiosi per legittimare davanti al popolo la propria potenza. Secondo don Stabile, esaminando i documenti dell’epoca, è evidente “che agli inizi del decennio ci fu una maggiore libertà di denuncia da parte dei vescovi, favorita dal nuovo spirito conciliare, dalla degenerazione del costume morale, dalla crisi sociale, dall’affievolimento della paura del comunismo, dalla crisi della Dc”. Eppure, secondo lo storico, mancò “anche in questo caso una lettura organica da parte dei vescovi del fatto mafioso, a parte una più esplicita e insistente denuncia. La mafia fu ancora una volta considerata un male morale e sociale e veniva elencata tra i problemi della Sicilia, fermandosi alle soglie del rapporto con la politica” (15).
L’eco di questi ritardi nell’analisi ecclesiale si concretizzò in un dibattito simile a quello su evangelizzazione e promozione umana. Ci si chiedeva, in sostanza, se l’impegno della Chiesa per la liberazione dalla criminalità organizzata fosse intrinseco alla sua missione evangelizzatrice (visto che la mafia è in sostanza la negazione del Vangelo). Oppure se la questione mafiosa “fosse solo un problema che riguarda la società civile, al quale la Chiesa con la sua condanna morale del male e con l’invito a una coerenza etica dà una mano, ma la cui soluzione spetta allo Stato e alla società stessa”. La questione rimase aperta fino agli anni Ottanta. Ancora nel 1983 la rivista “Segno” (nata nel ’74 attorno al redentorista Nino Fasullo e punto di riferimento del cattolicesimo del dissenso) organizzava un ampio dibattito sul tema: “La mafia è un problema che la Chiesa deve affrontare?”. Proprio nel ’74, il 10 ottobre, vede la luce il documento dei vescovi siciliani forse più significativo dell’epoca, redatto da monsignor Giuseppe Petralia, segretario della Cesi, in cui vengono esaminati i “mali sociali” dell’Isola. La crisi dell’agricoltura e dell’artigianato; l’emigrazione di massa; le larghe frange di analfabetismo e di inqualificazione professionale; la disoccupazione e la sottoccupazione; la situazione infelice delle zone colpite dal terremoto; il livello minimo del reddito medio. E infine si parla “della fosca macchia della mafia, che presume da una parte di risolvere i problemi della giustizia e dell’onore con le forme più grossolane e delittuose mentre, dall’altra, si accampa nei settori dell’industria edilizia e dei mercati con sistemi aggiornati di gangsterismo” (16).
Al centro della innegabile svolta degli anni Settanta c’è il contributo del cardinale Pappalardo. Il prelato tiene a sottolineare, però, come i ritardi nella comprensione del fenomeno fossero all’epoca di tutta la società e di gran parte della stessa magistratura. Nell’omelia per il suo 25° di episcopato si è espresso così: “Non mancò in quegli anni bui la voce della Chiesa che di volta in volta condannava inequivocabilmente i delitti commessi e le oscure trame mafiose che ne erano all’origine. Anche se sulla loro consistenza, qualificazione ed estensione non si avevano allora le informazioni e le prove divenute in appresso palesi”. Il riferimento è alle confessioni dei pentiti all’inizio degli anni Ottanta, tra cui Tommaso Buscetta, che tracciarono per la prima volta il quadro delle regole segrete e delle complicità politiche di Cosa Nostra.
Il cardinale traccia anche un’autocritica a nome della Chiesa: “Condividendo, probabilmente, una minore diffusa sensibilità, anche le comunità ecclesiali e i loro responsabili non hanno percepito, per qualche tempo e in diversa misura, che l’appartenenza o la contiguità con la mafia non erano compatibili con la professione della fede e che la mafia era di per se stessa una realtà contraddittoria al Vangelo”. Le radici della mancata percezione vengono individuate nel ruolo di controllo sociale che ebbe la mafia nelle campagne e poi nelle città siciliane. Riflette infatti Pappalardo: “Forse si pensò che si potesse scindere l’attività criminale della mafia (non sempre così percepibile come lo è oggi) da quella mediazione sociale che essa esercitava, contribuendo talora a risolvere, in maniera pacifica, contrasti e difficoltà che si ponevano sia sul piano dei rapporti privati che di quelli pubblici. In tempi e circostanze in cui è stata carente la presenza dello Stato e debole la sua capacità di amministrare rapidamente la giustizia, si è verificato che la mafia acquistasse prestigio ed esercitasse potere”.
Non è questa la sede per trarre le somme dell’episcopato di Pappalardo. Sul tema va però almeno notato questo giudizio che viene da Saverio Lodato, un giornalista laico, inviato dell’Unità: “Quando gli storici si dedicheranno a questo bilancio, non potranno fare a meno di convenire su questo punto: è stato lui per la prima volta, a richiamare l’attenzione delle grandi masse cattoliche sul fenomeno mafioso, dimostrando una lungimiranza che ai massimi rappresentanti delle istituzioni statali fece difetto. Poi, naturalmente, gli storici potranno dividersi nel giudizio su questa o quella fase del suo magistero, sul contenuto di questa o quella omelia…Resterà comunque il ritratto di un cardinale di fine cultura religiosa, attento ai fermenti del suo tempo, costantemente preoccupato dalla necessità di non perdere pezzi della sua Chiesa lungo un faticoso cammino di liberazione e presa di coscienza” (17).
Note
13) Omelia del card. Pappalardo per il 25° di episcopato in Novica, 21 dicembre 1995.
14) F.M. Stabile, in Syn. cit., 42
15) Ibidem, 45
16) F.M. Stabile, in Don Pino Puglisi prete e martire, Trapani 2000, 103. Il documento del ’74 è rievocato dallo stesso mons. Petralia in S. Lodato, Dall’altare contro la mafia, Milano 1994, 174. Petralia nell’intervista pubblicata nel libro dà questo giudizio su Ruffini e la mafia: “Sono stato 17 anni a Palermo col cardinale Ruffini e il problema non esisteva, non lo si percepiva…Il cardinale Ruffini? Il mio punto di vista su di lui è semplice. Sarebbe un errore considerarlo amico e protettore della mafia. Era originario di un paesino del Nord, di certe situazioni sociali non aveva neanche una lontana idea. Era un buon uomo, un’anima candida…Sapeva che esisteva un fenomeno deprecabile come la mafia, ma non capì la sua pericolosità”.
17) S. Lodato, cit., 72.
13) Omelia del card. Pappalardo per il 25° di episcopato in Novica, 21 dicembre 1995.
14) F.M. Stabile, in Syn. cit., 42
15) Ibidem, 45
16) F.M. Stabile, in Don Pino Puglisi prete e martire, Trapani 2000, 103. Il documento del ’74 è rievocato dallo stesso mons. Petralia in S. Lodato, Dall’altare contro la mafia, Milano 1994, 174. Petralia nell’intervista pubblicata nel libro dà questo giudizio su Ruffini e la mafia: “Sono stato 17 anni a Palermo col cardinale Ruffini e il problema non esisteva, non lo si percepiva…Il cardinale Ruffini? Il mio punto di vista su di lui è semplice. Sarebbe un errore considerarlo amico e protettore della mafia. Era originario di un paesino del Nord, di certe situazioni sociali non aveva neanche una lontana idea. Era un buon uomo, un’anima candida…Sapeva che esisteva un fenomeno deprecabile come la mafia, ma non capì la sua pericolosità”.
17) S. Lodato, cit., 72.
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