PAPA GIOVANNI PAOLO II E LA SICILIA
Lo storico anatema del Papa contro la mafia è stato pronunciato due volte, nel ’93 e nel ’95. Ma nelle decine di discorsi che Giovanni Paolo II dedicò all’Isola, durante le sue cinque visite, non c’è solo la mafia. C’è anche un patrimonio di consigli e riflessioni tutto da riscoprire (18).
«Un grido mi nacque dal cuore»: Giovanni Paolo II parlava così sul podio della Fiera, a Palermo, sovrastato dall’immagine del Cristo Pantocrator. E con vivida umanità inumidiva l’indice tra le labbra per sfogliare le pagine del suo discorso. «Non posso ripetere quel che ho già detto ad Agrigento...Ma non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita...».
È il 23 novembre del ’95, quinta e ultima visita del Papa in Sicilia, in occasione del convegno delle Chiese d’Italia. È difficile che un Pontefice si ripeta, che riprenda un brano intero di un discorso precedente. Ma Karol Wojtyla spesso infrangeva il cerimoniale, spazzando via usi e costumi della tradizione. Già il primo anatema, d’altronde, fu un guizzo, un’illuminazione improvvisa, all’ombra della Valle dei Templi.
In quel momento alla Fiera, il Papa ripensò alla celebrazione di un anno e mezzo prima, ad Agrigento, - 9 maggio 1993 - col vento che gli scompigliava i capelli bianchi e il Tempio della Concordia alle spalle. Ripensò all’anatema contro i mafiosi, al suo dirompente invito alla conversione. E lo ripetè, parola per parola, con la mente a quella che era stata invece la risposta della mafia: a luglio le bombe di Roma, che danneggiarono le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, a settembre l’omicidio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita...Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!». Il Papa ripetè le parole a Palermo, la terra amata da don Puglisi, un anno e mezzo dopo. E poi spiegò: «Un grido mi nacque dal cuore». Queste frasi che fecero il giro del mondo, infatti, non erano scritte nel discorso ufficiale pronto per la celebrazione di Agrigento. Furono pronunciate a braccio dal Pontefice, quasi per una subitanea ispirazione.
Il legame che il Vaticano rilevò tra l’anatema e le bombe dell’estate ’93 emerge anche dalla monumentale biografia di Wojtyla, firmata dal teologo americano George Weigel («Testimone della speranza»). L’autore ha avuto la straordinaria opportunità di consultare documenti segreti della Santa Sede e di colloquiare per più di venti ore con lo stesso Pontefice. Nel volume, dopo aver riportato il monito della Valle e la notizia delle esplosioni a Roma, il teologo conclude: «Non è possibile credere che la scelta del momento per gli attentati fosse frutto del caso…Gli attentati, così come la visita del Pontefice in Sicilia che pareva averli motivati, avevano luogo in un momento di eccezionale inquietudine nella vita pubblica italiana. Gli accordi, spesso informali e talora al di fuori della legalità, che avevano plasmato la vita politica del Paese durante la Guerra fredda, stavano venendo meno» (19).
Scavando nei testi dei discorsi pronunciati da Wojtyla durante le cinque visite nell’Isola, si ricostruisce pure una fitta trama di riflessioni, tutte ispirate dal tentativo di scuotere i siciliani, soprattutto i giovani, dai «mali atavici dell’apatia e del fatalismo». E di spronarli verso una nuova cultura imprenditoriale, abbandonando la tentazione di aspettare tutto dallo Stato. In questa ottica il Pontefice non si limitò alla denuncia contro la mafia, ma spinse la Chiesa verso una nuova evangelizzazione, consapevole che la criminalità organizzata non verrà mai sconfitta se non prevarrà «una cultura della vita».
Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita del Papa in Sicilia (20-21 novembre dell’82) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla - Pontefice da poco più di quattro anni - non pronunciò la parola mafia. E andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era caduto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelìa di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano però le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara - disse il Papa a Palermo il 21 novembre - che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana...Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato ad una operosità che non conosca stanchezze».
Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Il Papa disse che per sanare la dilagante mentalità mafiosa “è necessario riannunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza…La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola”.
E’ la volta del viaggio del ’93, che oltre ad Agrigento, tocca Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”). Il Papa pronunciò quindici discorsi in tutto. Di straordinaria forza e intensità. Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia». Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre ’94) a Catania e a Siracusa.
La prima sferzata è per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri...). «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione - disse il Papa a Siracusa - e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le forze disponibili del clero».
I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso Pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il Papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano. Il Papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo».
Nei suoi discorsi nell’Isola il Papa inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione».
L’arretratezza economica siciliana, nella quale alligna la mafia, è frutto anche di carenze culturali. Ad Agrigento il Pontefice sottolineò: «È urgente, in una zona come la vostra a forte tasso di disoccupazione, promuovere una cultura dell’iniziativa, una cultura dell’impresa. A tal fine bisogna che si riscopra, specialmente tra le nuove generazioni, il gusto della creatività in ogni campo, compreso quello economico. Non ci si può aspettare tutto dagli altri, non si può pretendere tutto dallo Stato». Anche i dipendenti hanno la loro parte di responsabilità. Ecco un brano del discorso di Caltanissetta: «Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro una inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità».
Una così acuta analisi dei mali della Sicilia si chiuse nel ’95, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza: «Spetta alle genti del Sud - concluse il Papa a Palermo, alla Fiera, sotto lo sguardo del «Pantocrator» - essere le protagoniste del proprio riscatto...E le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata». Partendo dal sacrificio di don Puglisi, dopo la rivolta della società civile, Giovanni Paolo II indicava così la strada del riscatto anche alla comunità ecclesiale.
Attraverso un linguaggio nuovo e proprio dei cristiani - il linguaggio evangelico della profezia e della conversione - superava di slancio l’antico dibattito sui compiti e le competenze della Chiesa in terra di mafia. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società siciliana.
“La cultura siciliana – ha scritto Cataldo Naro – è bisognosa di radicali interventi purificatori e risanatori”. Per questo la comunità ecclesiale non può limitarsi a sterili denunce, magari prendendo in prestito slogan e atteggiamenti della società civile, ma deve continuamente confrontarsi con l’obiettivo della “inculturazione della fede”: “Parlare di evangelizzazione – scrive Naro - come inculturazione porta ad esplicitare l’esigenza di un confronto della prassi pastorale con la cultura diffusa. La Chiesa siciliana, di fronte ai processi di secolarizzazione e di decristianizzazione della mentalità collettiva, che hanno raggiunto anche l’Isola, evidenziando tra l’altro larghe zone di scarsa cristianizzazione dell’antica cultura popolare, si dà il compito di informare la mentalità collettiva a modi di pensare e di agire in consonanza col messaggio cristiano. Al fine di determinare un ambiente in cui la testimonianza cristiana non solo risulti possibile, ma riesca anche ad incidere nella linea di una umanizzazione dei rapporti sociali. Dandosi questo compito, inevitabilmente la Chiesa di Sicilia incrocia il tema della mafia” (20). E, insieme con la mafia, incrocia anche la via del martirio.
«Un grido mi nacque dal cuore»: Giovanni Paolo II parlava così sul podio della Fiera, a Palermo, sovrastato dall’immagine del Cristo Pantocrator. E con vivida umanità inumidiva l’indice tra le labbra per sfogliare le pagine del suo discorso. «Non posso ripetere quel che ho già detto ad Agrigento...Ma non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita...».
È il 23 novembre del ’95, quinta e ultima visita del Papa in Sicilia, in occasione del convegno delle Chiese d’Italia. È difficile che un Pontefice si ripeta, che riprenda un brano intero di un discorso precedente. Ma Karol Wojtyla spesso infrangeva il cerimoniale, spazzando via usi e costumi della tradizione. Già il primo anatema, d’altronde, fu un guizzo, un’illuminazione improvvisa, all’ombra della Valle dei Templi.
In quel momento alla Fiera, il Papa ripensò alla celebrazione di un anno e mezzo prima, ad Agrigento, - 9 maggio 1993 - col vento che gli scompigliava i capelli bianchi e il Tempio della Concordia alle spalle. Ripensò all’anatema contro i mafiosi, al suo dirompente invito alla conversione. E lo ripetè, parola per parola, con la mente a quella che era stata invece la risposta della mafia: a luglio le bombe di Roma, che danneggiarono le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, a settembre l’omicidio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il diritto divino alla vita...Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!». Il Papa ripetè le parole a Palermo, la terra amata da don Puglisi, un anno e mezzo dopo. E poi spiegò: «Un grido mi nacque dal cuore». Queste frasi che fecero il giro del mondo, infatti, non erano scritte nel discorso ufficiale pronto per la celebrazione di Agrigento. Furono pronunciate a braccio dal Pontefice, quasi per una subitanea ispirazione.
Il legame che il Vaticano rilevò tra l’anatema e le bombe dell’estate ’93 emerge anche dalla monumentale biografia di Wojtyla, firmata dal teologo americano George Weigel («Testimone della speranza»). L’autore ha avuto la straordinaria opportunità di consultare documenti segreti della Santa Sede e di colloquiare per più di venti ore con lo stesso Pontefice. Nel volume, dopo aver riportato il monito della Valle e la notizia delle esplosioni a Roma, il teologo conclude: «Non è possibile credere che la scelta del momento per gli attentati fosse frutto del caso…Gli attentati, così come la visita del Pontefice in Sicilia che pareva averli motivati, avevano luogo in un momento di eccezionale inquietudine nella vita pubblica italiana. Gli accordi, spesso informali e talora al di fuori della legalità, che avevano plasmato la vita politica del Paese durante la Guerra fredda, stavano venendo meno» (19).
Scavando nei testi dei discorsi pronunciati da Wojtyla durante le cinque visite nell’Isola, si ricostruisce pure una fitta trama di riflessioni, tutte ispirate dal tentativo di scuotere i siciliani, soprattutto i giovani, dai «mali atavici dell’apatia e del fatalismo». E di spronarli verso una nuova cultura imprenditoriale, abbandonando la tentazione di aspettare tutto dallo Stato. In questa ottica il Pontefice non si limitò alla denuncia contro la mafia, ma spinse la Chiesa verso una nuova evangelizzazione, consapevole che la criminalità organizzata non verrà mai sconfitta se non prevarrà «una cultura della vita».
Molto prima dell’anatema di Agrigento, la prima visita del Papa in Sicilia (20-21 novembre dell’82) passò agli annali delle cronache come un’occasione mancata. Wojtyla - Pontefice da poco più di quattro anni - non pronunciò la parola mafia. E andarono deluse, tra mille polemiche, le attese di quanti chiedevano una posizione più netta in un’Isola scossa da omicidi eccellenti (a settembre era caduto il generale Dalla Chiesa) e da altissime denunce (l’«omelìa di Sagunto» del cardinale Pappalardo ai successivi funerali). In realtà, a rileggere quei discorsi si trovano però le fondamenta delle prese di posizione successive: «I fatti di violenza barbara - disse il Papa a Palermo il 21 novembre - che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città offendono la dignità umana...Occorre ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della legge di Dio». Parlando poi al clero sottolineò come «in questa drammatica realtà il Vangelo deve essere proclamato alto e forte. Perciò il ministero sacerdotale è chiamato ad una operosità che non conosca stanchezze».
Dopo i viaggi a Messina e Patti (11 e 12 giugno 1988), va ricordata la visita “ad limina” dei vescovi siciliani del 22 novembre 1991. Il Papa disse che per sanare la dilagante mentalità mafiosa “è necessario riannunciare il Vangelo agli uomini della Sicilia e raggiungere in modo vitale e fino alle radici la loro cultura, impregnandola efficacemente della Buona Novella di Cristo, e sconvolgere mediante la sua forza i criteri di giudizio, i valori determinanti, i modelli di vita che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza…La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera isola”.
E’ la volta del viaggio del ’93, che oltre ad Agrigento, tocca Erice, Trapani, Mazara e Caltanissetta. Wojtyla volle incontrare i familiari di Falcone, Borsellino e Livatino (quest’ultimo definito davanti ai genitori “martire della giustizia, indirettamente della fede”). Il Papa pronunciò quindici discorsi in tutto. Di straordinaria forza e intensità. Paragonò le cosche e le loro «catene ataviche di odio e vendetta» al frutto delle fatiche di Satana, invitò i sacerdoti a «risanare l’isola dalla piaga della mafia». Altrettanto nette le posizioni assunte l’anno dopo (4, 5 e 6 novembre ’94) a Catania e a Siracusa.
La prima sferzata è per la stessa Chiesa. Non basta la denuncia, occorre l’azione e la conversione. Per cambiare la mentalità dei siciliani è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia». Quando il Vangelo non entra nella profondità della vita ma resta alla superficie nascono strani fenomeni di convivenza tra usanze religiose e costumi mafiosi (il già citato santino bruciato per l’iniziazione, la presenza degli «uomini di rispetto» alle processioni, le «letture religiose» di boss del calibro di Michele Greco o Pietro Aglieri...). «Per realizzare degnamente questo disegno di rievangelizzazione - disse il Papa a Siracusa - e di catechesi a tutti i livelli, è necessario il lavoro indefesso, costante, organizzato e concorde di tutte le forze disponibili del clero».
I sacerdoti devono essere pronti, in questa missione, al sacrificio anche della vita. Un compito assunto coscientemente in prima persona dallo stesso Pontefice. Per due volte, a Catania e a Siracusa, il Papa ricordò poi il martirio di don Pino Puglisi. E lo definì, tra gli applausi della folla, «coraggioso testimone del Vangelo». Significativo il riferimento durante la visita a Catania: fu fatto durante la cerimonia di beatificazione per Madre Maddalena Morano. Il Papa invocò una serie di santi e di beati, di «grandi siciliani». Poi sollevò gli occhi un attimo e disse, anche stavolta a braccio, «penso anche a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo».
Nei suoi discorsi nell’Isola il Papa inquadrò i mali tipici dell’indolenza siciliana, di un popolo attraversato dalla «voglia di non fare» in tutte le classi sociali, dagli ultimi Gattopardi al ceto borghese, ai reietti delle periferie. A Siracusa spiegò: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia. Non serve limitarsi a deplorare le lacune della pubblica amministrazione, la conflittualità di gruppi politici che mirano esclusivamente al potere anziché al servizio. È necessario, invece, impegnarsi a dare una risposta agli ormai annosi mali sociali. È indispensabile riacquistare il senso e la voglia della partecipazione».
L’arretratezza economica siciliana, nella quale alligna la mafia, è frutto anche di carenze culturali. Ad Agrigento il Pontefice sottolineò: «È urgente, in una zona come la vostra a forte tasso di disoccupazione, promuovere una cultura dell’iniziativa, una cultura dell’impresa. A tal fine bisogna che si riscopra, specialmente tra le nuove generazioni, il gusto della creatività in ogni campo, compreso quello economico. Non ci si può aspettare tutto dagli altri, non si può pretendere tutto dallo Stato». Anche i dipendenti hanno la loro parte di responsabilità. Ecco un brano del discorso di Caltanissetta: «Alla carenza sul versante imprenditoriale ha fatto riscontro una inadeguata cultura del lavoro dipendente, segnata dalla logica del posto sicuro e non tanto da quella del lavoro concepito come diritto-dovere, secondo l’etica della professionalità. Hanno potuto così prosperare il clientelismo, l’assistenzialismo, l’illegalità».
Una così acuta analisi dei mali della Sicilia si chiuse nel ’95, all’ultima visita, con una nota di ottimismo e di speranza: «Spetta alle genti del Sud - concluse il Papa a Palermo, alla Fiera, sotto lo sguardo del «Pantocrator» - essere le protagoniste del proprio riscatto...E le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata». Partendo dal sacrificio di don Puglisi, dopo la rivolta della società civile, Giovanni Paolo II indicava così la strada del riscatto anche alla comunità ecclesiale.
Attraverso un linguaggio nuovo e proprio dei cristiani - il linguaggio evangelico della profezia e della conversione - superava di slancio l’antico dibattito sui compiti e le competenze della Chiesa in terra di mafia. E la Chiesa stessa, negli anni successivi, ha iniziato a porsi il problema del proprio rinnovamento e della propria presenza nella società siciliana.
“La cultura siciliana – ha scritto Cataldo Naro – è bisognosa di radicali interventi purificatori e risanatori”. Per questo la comunità ecclesiale non può limitarsi a sterili denunce, magari prendendo in prestito slogan e atteggiamenti della società civile, ma deve continuamente confrontarsi con l’obiettivo della “inculturazione della fede”: “Parlare di evangelizzazione – scrive Naro - come inculturazione porta ad esplicitare l’esigenza di un confronto della prassi pastorale con la cultura diffusa. La Chiesa siciliana, di fronte ai processi di secolarizzazione e di decristianizzazione della mentalità collettiva, che hanno raggiunto anche l’Isola, evidenziando tra l’altro larghe zone di scarsa cristianizzazione dell’antica cultura popolare, si dà il compito di informare la mentalità collettiva a modi di pensare e di agire in consonanza col messaggio cristiano. Al fine di determinare un ambiente in cui la testimonianza cristiana non solo risulti possibile, ma riesca anche ad incidere nella linea di una umanizzazione dei rapporti sociali. Dandosi questo compito, inevitabilmente la Chiesa di Sicilia incrocia il tema della mafia” (20). E, insieme con la mafia, incrocia anche la via del martirio.
Note
18) Sui discorsi del Papa cfr. S. Consoli, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II, in Syn. cit., 143-177 e anche G. Savagnone, cit. 125-33. Sulle polemiche dopo la prima visita S. Lodato, Dall’altare contro la mafia, Milano 1994, 113-117. I discorsi del Papa in Sicilia sono stati pubblicati dalla Cesi in La terza visita di Giovanni Paolo II in Sicilia, Palermo 1994.
19) G.Weigel, Testimone della speranza, Milano 1999, 848.
20) C. Naro, in Syn. cit. 62-63
18) Sui discorsi del Papa cfr. S. Consoli, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II, in Syn. cit., 143-177 e anche G. Savagnone, cit. 125-33. Sulle polemiche dopo la prima visita S. Lodato, Dall’altare contro la mafia, Milano 1994, 113-117. I discorsi del Papa in Sicilia sono stati pubblicati dalla Cesi in La terza visita di Giovanni Paolo II in Sicilia, Palermo 1994.
19) G.Weigel, Testimone della speranza, Milano 1999, 848.
20) C. Naro, in Syn. cit. 62-63
Nessun commento:
Posta un commento