IL DELITTO PUGLISI
La sera del 15 settembre del 1993 un gruppo di killer affrontava sotto casa don Pino Puglisi e metteva a tacere la sua voce. Salvatore Grigoli, l’assassino poi divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato: “Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello nelle mani. Fu una questione di pochi secondi: io ebbi il tempo di notare che lo Spatuzza si avvicinò, gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. E gli disse piano: padre, questa è una rapina.
Lui si girò, lo guardò, sorrise – una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte – e disse: me l’aspettavo.
Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca”.
Fuggiti gli assassini, il primo ad accorrere sulla scena del delitto fu un vicino di casa che trovò il sacerdote con le braccia in croce, raccolte sul petto, come in un’ultima preghiera. (21).
Tanto la scomparsa del parroco di Brancaccio fu silenziosa, quasi in punta di piedi, quanto la notizia della sua morte percosse con forza il corpo dell'intera chiesa, dall'ultimo sacerdote di periferia al Papa stesso. La salma venne trasportata dall'obitorio in Cattedrale: davanti all'altare, fino a notte, centinaia di persone resero l'ultimo saluto. Molti notarono il contrasto tra le lacrime di chi passava davanti alla bara aperta e "i normali tratti di quel volto sereno, persino sorridente, senza nulla dell'agghiacciante stupore che, pure, avrebbe potuto rimanervi stampato dal botto tremendo dello sparo e dall'improvvisa, indicibile sofferenza fisica” (22).
Un gruppetto di preti (Antonio Garau, Giacomo Ribaudo, Paolo Turturro, Ennio Pintacuda, Baldassare Meli, Cesare Rattoballi, Aldo Nuvola) scrisse una lettera al Papa. Vi si legge: “Padre Giuseppe Puglisi era un parroco impegnato in un quartiere di Palermo piagato da mafia e degrado. Questo sacerdote, come tanti altri della Chiesa di Palermo, era uno che viveva il Vangelo e si specchiava ogni giorno nel messaggio che Sua Santità ha dato il 9 maggio scorso alle Chiese di Sicilia nel vibrante discorso pronunciato nella Valle dei Templi di Agrigento. Il nostro confratello, Giuseppe Puglisi, non era sicuramente uno di coloro, sacerdoti e vescovi, ai quali fu rivolto il Suo duro monito di non essere tiepidi e deboli nella lotta alla mafia. Santità, la città di Palermo tutta, i sacerdoti e i cristiani sono affranti e terribilmente colpiti. Ci chiediamo quando finirà questa terribile catena di morte. Qualcuno è anche smarrito e scoraggiato e si chiede se vale la pena continuare a lottare, anche perché continuano a esserci sacerdoti e vescovi che non sono testimoni autentici della liberazione che Cristo vuole per questa nostra isola…”.
In quelle convulse ore al Palazzo Arcivescovile si decise di celebrare i funerali in un piazzale dell'area industriale di Brancaccio. La chiesa di San Gaetano era inagibile, la Cattedrale troppo lontana: occorreva dare un segno al quartiere. La bara venne portata a spalla dai sacerdoti, tra due ali di folla, in un pomeriggio di sole caldissimo. Qualche prete, mentre trasportava il corpo del confratello, ebbe la forza d'animo di fare con due dita il segno della vittoria. Davanti al palco, allestito in fretta tra i capannoni e gli stabilimenti, si ritrovarono circa ottomila persone, ma solo tre o quattrocento erano della borgata, in pratica i soli parrocchiani di padre Pino. Tranne poche eccezioni, al passaggio del corteo le finestre rimasero chiuse, i balconi vuoti, i cuori pieni di paura. Dietro il carro funebre i primi posti furono lasciati ai bambini. Molti giornali scrissero di "un'atmosfera sudamericana": una desolata periferia, stradoni e fabbriche di cemento e lamiera, decine di poliziotti e carabinieri appostati dovunque, persino sui tetti dei palazzi intorno.
Nella sua omelia il cardinale Pappalardo disse: "Coloro che uccidono i propri fratelli sono cristiani ma traditori, sono cristiani ma disonorati in se stessi...La città di Palermo, la Chiesa di Palermo non si fermeranno, ma dal sangue sparso da altri cittadini e funzionari dello Stato, e ora da questo ministro della Chiesa, sapranno assumere nuova determinazione e nuovo vigore". La matrice mafiosa del delitto era chiaramente ribadita, anche per mettere a tacere le numerose voci, messe in giro ad arte dai clan. Aggiunse poi l'arcivescovo: "Padre Puglisi è morto per aver avuto fame e sete di giustizia divina e umana. E' morto per questa sete di cose giuste. Niente lo ha fermato: né morte, né vita, né presente, né futuro. Niente e nessuno ha potuto impedire il suo grande amore per Dio che diventava, come dev'essere per ogni cristiano, interesse, solidarietà, servizio per quanti hanno bisogno di essere aiutati nel corpo e nello spirito". Infine un invito con ancora negli occhi il corpo esanime, battendo con forza i pugni sul tavolo: "Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. E' la comunità civile e ancor piu' quella cristiana che deve reagire coralmente, non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denunzia e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli" . Nel testo si colse una replica al gruppetto dei sacerdoti: “Abbiamo bisogno di essere incoraggiati e sostenuti ma non siamo per nulla smarriti di cuore!” (23).
In Vaticano non ci fu sottovalutazione. L'eco del delitto Puglisi ricordò il cupo rimbombo delle esplosioni del luglio ’93 davanti alle chiese e il monito della Valle dei Templi. Il Papa intervenne la mattina del giorno dei funerali dalla Verna, il monte dove San Francesco ricevette le stimmate: "In questo luogo di pace e di preghiera, non posso che esprimere il dolore con il quale ho appreso ieri mattina la notizia dell'uccisione di un sacerdote di Palermo, don Giuseppe Puglisi. Elevo la mia voce per deplorare che un sacerdote impegnato nell'annuncio del Vangelo e nell'aiutare i fratelli a vivere onestamente, ad amare Dio e il prossimo, sia stato barbaramente eliminato. Mentre imploro da Dio il premio eterno per questo generoso ministro di Cristo, invito i responsabili di questo delitto a ravvedersi e a convertirsi. Che il sangue innocente di questo sacerdote porti pace alla cara Sicilia". Mentre era in pellegrinaggio alla Verna, sempre il 17 settembre Giovanni Paolo II aveva chiesto a San Francesco: «Aiuta gli uomini a liberarsi dalle strutture di peccato che opprimono l'odierna società...agli offesi da ogni genere di cattiveria comunica la tua gioia di sapere perdonare, a tutti i crocifissi dalla sofferenza, dalla fame e dalla guerra riapri le porte della speranza". ”L'Osservatore Romano“, riportando l'intervento del Papa, dedicava anche un commento in prima pagina alla vicenda per richiamare il "solenne, drammatico, angosciato grido levato contro la mafia ad Agrigento". Il quotidiano vaticano definiva don Puglisi "una sfera che, lontano dalla luce dei riflettori, ha rischiarato le coscienze".
Fu il cardinale Camillo Ruini, il 20 settembre, a intuire il collegamento nelle strategie della mafia fra il delitto Puglisi e le bombe dell'estate (che avevano tra l'altro colpito San Giovanni in Laterano, che è la sua sede in quanto vicario del Papa a Roma). Parlando a Siena, all'incontro autunnale della Conferenza episcopale, il cardinale disse: "Don Puglisi era un prete esemplare, che ha testimoniato con la realtà della sua vita e della sua stessa morte come la Chiesa sulla via che conduce da Cristo all'uomo non possa essere fermata da nessuno". Proseguì poi il presidente della Cei: "Non solo a Palermo una mano criminale ha colpito direttamente la Chiesa, ma anche nella capitale. San Giovanni è il cuore della Roma cristiana. Non consideriamo questi attacchi alla Chiesa come disgiunti dagli altri che hanno ancora insanguinato il nostro Paese. Vi è infatti non solo una unità nel disegno criminale, ma anche un intimo legame tra la Chiesa e l'Italia". L'analisi si allargava infine al vorticoso periodo di Tangentopoli: "La Chiesa andrà avanti annunciando il Vangelo, quale che sia il prezzo da pagare. Per quanto riguarda l'Italia siamo entrati in una fase nuova della nostra storia, nella quale - giorno dopo giorno - quella che viene chiamata questione morale si rivela piu' ampia, piu' profonda, piu' radicale. E accanto a essa prende sempre piu' rilievo anche quella che possiamo definire una nuova forma di questione sociale" (24). Pure la Chiesa italiana si rendeva conto di essere coinvolta, come tutte le altre forze della Prima Repubblica, in un terremoto. E che c'era un tributo di sangue da pagare. Disse acutamente in quei giorni padre Bartolomeo Sorge: "La criminalità organizzata ha perso lo Stato, sta perdendo gli agganci con la politica. Ha perso anche la Chiesa, nel senso che sono state fatte scelte irreversibili e chiare" .
Anni dopo, gli stessi mafiosi condannati a Palermo, con sentenze definitive, per il delitto Puglisi (i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, come mandanti, e il loro “gruppo di fuoco”) sono stati condannati anche a Firenze al processo per le stragi dell’estate ’93: quattro attentati tra la Toscana, Roma e Milano, con un bilancio agghiacciante di 10 morti (tra cui due bambini), 95 feriti e danni per miliardi al patrimonio artistico (gli Uffizi). Secondo la magistratura si trattò dell’estremo tentativo di ricatto allo Stato da parte del boss Salvatore Riina, che era stato arrestato, tra mille misteri, il 15 gennaio del ’93.
Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, ascoltato dalla Commissione antimafia nell’estate di quell’anno, mise a verbale che “La Chiesa ha capito prima dello Stato che deve prendere le distanze da Cosa Nostra. In passato, in un certo senso, sembrava che Cosa Nostra aiutasse la gente e la Chiesa si prestava…da alcuni anni, invece, la Chiesa non vuole avere nessun contatto”.
Il 19 agosto, negli Stati Uniti, l’Fbi aveva rivolto alcune domande sulla nuova strategia stragista della mafia a uno dei pentiti più famosi, Francesco Marino Mannoia: “Nel passato – disse – la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”. Il rapporto dell’Fbi, quattro pagine, venne trasmesso al capo della polizia italiana il 3 settembre. Il 5 dal ministero degli Interni partiva un “dispaccio riservato” ai comandi generali di carabinieri e guardia di finanza e alla Direzione investigativa antimafia. Il Viminale, raccogliendo l’allarme di Mannoia, raccomandava una “immediata verifica della tutela delle personalità religiose” oltre che di politici e magistrati (25). Dieci giorni dopo scattava l’agguato – la morte annunciata – per padre Puglisi. Come senza precedenti era stato il discorso del Papa ad Agrigento, così fu di inaudita ferocia e violenza la risposta della mafia, da Roma a Brancaccio.
Ma perché venne ucciso padre Puglisi e non altri? Cosa faceva di tanto dirompente? Perché la mafia si accanì contro di lui, mentre fino a quel momento si era mostrata rispettosa dei “parrini”, soprattutto di quelli che “campano e fanno campari”? Un altro pentito, Giovanni Drago, proprio del clan di Brancaccio, ha raccontato: “Il prete era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva manifestazioni, diceva che si doveva distruggere la mafia. Insomma ogni giorno martellava, martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo”. E un altro ancora, Totò Cancemi: “Tutti i clan della zona orientale della città rimproveravano i Graviano per le attività di padre Pino, perché i picciotti seguono questo prete e non vengono a sentire i discorsi di Cosa Nostra”. Il cognato di Riina, Leoluca Bagarella, avrebbe aspramente criticato i fratelli Graviano proprio per questo. Un suo guardaspalle, oggi pentito, Tony Calvaruso, riferisce: “Il prete era stato ucciso per il suo impegno antimafia, cosa che era già un motivo valido. Ma in concreto i Graviano avevano commissionato il delitto perché il Bagarella ne aveva per tutti e li criticava nel senso che c’era questo prete nel loro territorio – che faceva questi discorsi, che faceva le manifestazioni contro la mafia, che prendeva questi bambini cercando di dire loro “non mettetevi con i mafiosi” – e loro praticamente l’avevano ignorato e avevano la testa sempre alle donne”.
Ed ecco uno stralcio delle motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo gli assassini (seconda sezione della Corte d’Assise, presidente Vincenzo Oliveri, giudice a latere estensore Mirella Agliastro, documento depositato in cancelleria in data 19 giugno 1998): “Emerge la figura di un prete che instancabilmente operava nel territorio, fuori dall’ombra del campanile…L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso…Don Puglisi aveva scelto non solo di ricostruire il sentimento religioso e spirituale dei suoi fedeli, ma anche di schierarsi concretamente, senza veli di ambiguità e complici silenzi, dalla parte di deboli ed emarginati, di appoggiare senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano alla radice l’ingiustizia della propria emrginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere”.
Uno dei sostituti procuratori che ha condotto l’inchiesta, Luigi Patronaggio, ha così sintetizzato il frutto delle sue indagini, e della sua esperienza umana a contatto con don Puglisi, in una bella pagina: “Come spesso avviene negli omicidi di mafia, vi è stato un convergere di cause, alcune rispondenti a una strategia alta, altre a logiche di basso profilo, altre ancora legate alla mera cattiveria umana. Don Puglisi toglieva i bambini dalle strade, insegnava la legalità e l’antimafia, a non abbassare la schiena, ad essere protagonisti della propria esistenza, faceva capire che la giustizia sociale è cara a Dio quanto l’essere pio e casto. Era contro il paganesimo, le confraternite e la religiosità ipocrita e di facciata, assoggettata ai potenti e alla mafia. Rifiutava la politica intesa come clientelismo e asservimento. Reclamava diritti e vivibilità per la gente del suo quartiere. Era duro contro i politici e gli amministratori inetti, sordi ed incapaci. Era solo, con i suoi bambini e i suoi ingenui collaboratori.
“E’ stata la vittima di una strategia d’attacco alla Chiesa militante, attraverso un filo che passa dal discorso del Papa ad Agrigento, all’attentato a San Giovanni in Laterano e San Giorgio a Roma…Forse è incappato nella tragica derisione di Bagarella nei confronti dei fratelli Graviano per la loro incapacità di “togliersi il disturbo da dentro casa”. Forse era anche un poco comunista. O forse era solo destino che un uomo umile rientrasse in un disegno divino, che semplicemente dovesse morire per insegnarci ad essere uomini, per insegnarci a diventare grandi con gli occhi e le speranza dei bambini. Per insegnarci che qualsiasi violenza ai bambini, ai deboli, all’uomo è fatta direttamente a Dio e grida giustizia” (26).
Lui si girò, lo guardò, sorrise – una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte – e disse: me l’aspettavo.
Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca”.
Fuggiti gli assassini, il primo ad accorrere sulla scena del delitto fu un vicino di casa che trovò il sacerdote con le braccia in croce, raccolte sul petto, come in un’ultima preghiera. (21).
Tanto la scomparsa del parroco di Brancaccio fu silenziosa, quasi in punta di piedi, quanto la notizia della sua morte percosse con forza il corpo dell'intera chiesa, dall'ultimo sacerdote di periferia al Papa stesso. La salma venne trasportata dall'obitorio in Cattedrale: davanti all'altare, fino a notte, centinaia di persone resero l'ultimo saluto. Molti notarono il contrasto tra le lacrime di chi passava davanti alla bara aperta e "i normali tratti di quel volto sereno, persino sorridente, senza nulla dell'agghiacciante stupore che, pure, avrebbe potuto rimanervi stampato dal botto tremendo dello sparo e dall'improvvisa, indicibile sofferenza fisica” (22).
Un gruppetto di preti (Antonio Garau, Giacomo Ribaudo, Paolo Turturro, Ennio Pintacuda, Baldassare Meli, Cesare Rattoballi, Aldo Nuvola) scrisse una lettera al Papa. Vi si legge: “Padre Giuseppe Puglisi era un parroco impegnato in un quartiere di Palermo piagato da mafia e degrado. Questo sacerdote, come tanti altri della Chiesa di Palermo, era uno che viveva il Vangelo e si specchiava ogni giorno nel messaggio che Sua Santità ha dato il 9 maggio scorso alle Chiese di Sicilia nel vibrante discorso pronunciato nella Valle dei Templi di Agrigento. Il nostro confratello, Giuseppe Puglisi, non era sicuramente uno di coloro, sacerdoti e vescovi, ai quali fu rivolto il Suo duro monito di non essere tiepidi e deboli nella lotta alla mafia. Santità, la città di Palermo tutta, i sacerdoti e i cristiani sono affranti e terribilmente colpiti. Ci chiediamo quando finirà questa terribile catena di morte. Qualcuno è anche smarrito e scoraggiato e si chiede se vale la pena continuare a lottare, anche perché continuano a esserci sacerdoti e vescovi che non sono testimoni autentici della liberazione che Cristo vuole per questa nostra isola…”.
In quelle convulse ore al Palazzo Arcivescovile si decise di celebrare i funerali in un piazzale dell'area industriale di Brancaccio. La chiesa di San Gaetano era inagibile, la Cattedrale troppo lontana: occorreva dare un segno al quartiere. La bara venne portata a spalla dai sacerdoti, tra due ali di folla, in un pomeriggio di sole caldissimo. Qualche prete, mentre trasportava il corpo del confratello, ebbe la forza d'animo di fare con due dita il segno della vittoria. Davanti al palco, allestito in fretta tra i capannoni e gli stabilimenti, si ritrovarono circa ottomila persone, ma solo tre o quattrocento erano della borgata, in pratica i soli parrocchiani di padre Pino. Tranne poche eccezioni, al passaggio del corteo le finestre rimasero chiuse, i balconi vuoti, i cuori pieni di paura. Dietro il carro funebre i primi posti furono lasciati ai bambini. Molti giornali scrissero di "un'atmosfera sudamericana": una desolata periferia, stradoni e fabbriche di cemento e lamiera, decine di poliziotti e carabinieri appostati dovunque, persino sui tetti dei palazzi intorno.
Nella sua omelia il cardinale Pappalardo disse: "Coloro che uccidono i propri fratelli sono cristiani ma traditori, sono cristiani ma disonorati in se stessi...La città di Palermo, la Chiesa di Palermo non si fermeranno, ma dal sangue sparso da altri cittadini e funzionari dello Stato, e ora da questo ministro della Chiesa, sapranno assumere nuova determinazione e nuovo vigore". La matrice mafiosa del delitto era chiaramente ribadita, anche per mettere a tacere le numerose voci, messe in giro ad arte dai clan. Aggiunse poi l'arcivescovo: "Padre Puglisi è morto per aver avuto fame e sete di giustizia divina e umana. E' morto per questa sete di cose giuste. Niente lo ha fermato: né morte, né vita, né presente, né futuro. Niente e nessuno ha potuto impedire il suo grande amore per Dio che diventava, come dev'essere per ogni cristiano, interesse, solidarietà, servizio per quanti hanno bisogno di essere aiutati nel corpo e nello spirito". Infine un invito con ancora negli occhi il corpo esanime, battendo con forza i pugni sul tavolo: "Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. E' la comunità civile e ancor piu' quella cristiana che deve reagire coralmente, non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denunzia e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli" . Nel testo si colse una replica al gruppetto dei sacerdoti: “Abbiamo bisogno di essere incoraggiati e sostenuti ma non siamo per nulla smarriti di cuore!” (23).
In Vaticano non ci fu sottovalutazione. L'eco del delitto Puglisi ricordò il cupo rimbombo delle esplosioni del luglio ’93 davanti alle chiese e il monito della Valle dei Templi. Il Papa intervenne la mattina del giorno dei funerali dalla Verna, il monte dove San Francesco ricevette le stimmate: "In questo luogo di pace e di preghiera, non posso che esprimere il dolore con il quale ho appreso ieri mattina la notizia dell'uccisione di un sacerdote di Palermo, don Giuseppe Puglisi. Elevo la mia voce per deplorare che un sacerdote impegnato nell'annuncio del Vangelo e nell'aiutare i fratelli a vivere onestamente, ad amare Dio e il prossimo, sia stato barbaramente eliminato. Mentre imploro da Dio il premio eterno per questo generoso ministro di Cristo, invito i responsabili di questo delitto a ravvedersi e a convertirsi. Che il sangue innocente di questo sacerdote porti pace alla cara Sicilia". Mentre era in pellegrinaggio alla Verna, sempre il 17 settembre Giovanni Paolo II aveva chiesto a San Francesco: «Aiuta gli uomini a liberarsi dalle strutture di peccato che opprimono l'odierna società...agli offesi da ogni genere di cattiveria comunica la tua gioia di sapere perdonare, a tutti i crocifissi dalla sofferenza, dalla fame e dalla guerra riapri le porte della speranza". ”L'Osservatore Romano“, riportando l'intervento del Papa, dedicava anche un commento in prima pagina alla vicenda per richiamare il "solenne, drammatico, angosciato grido levato contro la mafia ad Agrigento". Il quotidiano vaticano definiva don Puglisi "una sfera che, lontano dalla luce dei riflettori, ha rischiarato le coscienze".
Fu il cardinale Camillo Ruini, il 20 settembre, a intuire il collegamento nelle strategie della mafia fra il delitto Puglisi e le bombe dell'estate (che avevano tra l'altro colpito San Giovanni in Laterano, che è la sua sede in quanto vicario del Papa a Roma). Parlando a Siena, all'incontro autunnale della Conferenza episcopale, il cardinale disse: "Don Puglisi era un prete esemplare, che ha testimoniato con la realtà della sua vita e della sua stessa morte come la Chiesa sulla via che conduce da Cristo all'uomo non possa essere fermata da nessuno". Proseguì poi il presidente della Cei: "Non solo a Palermo una mano criminale ha colpito direttamente la Chiesa, ma anche nella capitale. San Giovanni è il cuore della Roma cristiana. Non consideriamo questi attacchi alla Chiesa come disgiunti dagli altri che hanno ancora insanguinato il nostro Paese. Vi è infatti non solo una unità nel disegno criminale, ma anche un intimo legame tra la Chiesa e l'Italia". L'analisi si allargava infine al vorticoso periodo di Tangentopoli: "La Chiesa andrà avanti annunciando il Vangelo, quale che sia il prezzo da pagare. Per quanto riguarda l'Italia siamo entrati in una fase nuova della nostra storia, nella quale - giorno dopo giorno - quella che viene chiamata questione morale si rivela piu' ampia, piu' profonda, piu' radicale. E accanto a essa prende sempre piu' rilievo anche quella che possiamo definire una nuova forma di questione sociale" (24). Pure la Chiesa italiana si rendeva conto di essere coinvolta, come tutte le altre forze della Prima Repubblica, in un terremoto. E che c'era un tributo di sangue da pagare. Disse acutamente in quei giorni padre Bartolomeo Sorge: "La criminalità organizzata ha perso lo Stato, sta perdendo gli agganci con la politica. Ha perso anche la Chiesa, nel senso che sono state fatte scelte irreversibili e chiare" .
Anni dopo, gli stessi mafiosi condannati a Palermo, con sentenze definitive, per il delitto Puglisi (i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, come mandanti, e il loro “gruppo di fuoco”) sono stati condannati anche a Firenze al processo per le stragi dell’estate ’93: quattro attentati tra la Toscana, Roma e Milano, con un bilancio agghiacciante di 10 morti (tra cui due bambini), 95 feriti e danni per miliardi al patrimonio artistico (gli Uffizi). Secondo la magistratura si trattò dell’estremo tentativo di ricatto allo Stato da parte del boss Salvatore Riina, che era stato arrestato, tra mille misteri, il 15 gennaio del ’93.
Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, ascoltato dalla Commissione antimafia nell’estate di quell’anno, mise a verbale che “La Chiesa ha capito prima dello Stato che deve prendere le distanze da Cosa Nostra. In passato, in un certo senso, sembrava che Cosa Nostra aiutasse la gente e la Chiesa si prestava…da alcuni anni, invece, la Chiesa non vuole avere nessun contatto”.
Il 19 agosto, negli Stati Uniti, l’Fbi aveva rivolto alcune domande sulla nuova strategia stragista della mafia a uno dei pentiti più famosi, Francesco Marino Mannoia: “Nel passato – disse – la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”. Il rapporto dell’Fbi, quattro pagine, venne trasmesso al capo della polizia italiana il 3 settembre. Il 5 dal ministero degli Interni partiva un “dispaccio riservato” ai comandi generali di carabinieri e guardia di finanza e alla Direzione investigativa antimafia. Il Viminale, raccogliendo l’allarme di Mannoia, raccomandava una “immediata verifica della tutela delle personalità religiose” oltre che di politici e magistrati (25). Dieci giorni dopo scattava l’agguato – la morte annunciata – per padre Puglisi. Come senza precedenti era stato il discorso del Papa ad Agrigento, così fu di inaudita ferocia e violenza la risposta della mafia, da Roma a Brancaccio.
Ma perché venne ucciso padre Puglisi e non altri? Cosa faceva di tanto dirompente? Perché la mafia si accanì contro di lui, mentre fino a quel momento si era mostrata rispettosa dei “parrini”, soprattutto di quelli che “campano e fanno campari”? Un altro pentito, Giovanni Drago, proprio del clan di Brancaccio, ha raccontato: “Il prete era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva manifestazioni, diceva che si doveva distruggere la mafia. Insomma ogni giorno martellava, martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo”. E un altro ancora, Totò Cancemi: “Tutti i clan della zona orientale della città rimproveravano i Graviano per le attività di padre Pino, perché i picciotti seguono questo prete e non vengono a sentire i discorsi di Cosa Nostra”. Il cognato di Riina, Leoluca Bagarella, avrebbe aspramente criticato i fratelli Graviano proprio per questo. Un suo guardaspalle, oggi pentito, Tony Calvaruso, riferisce: “Il prete era stato ucciso per il suo impegno antimafia, cosa che era già un motivo valido. Ma in concreto i Graviano avevano commissionato il delitto perché il Bagarella ne aveva per tutti e li criticava nel senso che c’era questo prete nel loro territorio – che faceva questi discorsi, che faceva le manifestazioni contro la mafia, che prendeva questi bambini cercando di dire loro “non mettetevi con i mafiosi” – e loro praticamente l’avevano ignorato e avevano la testa sempre alle donne”.
Ed ecco uno stralcio delle motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo gli assassini (seconda sezione della Corte d’Assise, presidente Vincenzo Oliveri, giudice a latere estensore Mirella Agliastro, documento depositato in cancelleria in data 19 giugno 1998): “Emerge la figura di un prete che instancabilmente operava nel territorio, fuori dall’ombra del campanile…L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso…Don Puglisi aveva scelto non solo di ricostruire il sentimento religioso e spirituale dei suoi fedeli, ma anche di schierarsi concretamente, senza veli di ambiguità e complici silenzi, dalla parte di deboli ed emarginati, di appoggiare senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano alla radice l’ingiustizia della propria emrginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere”.
Uno dei sostituti procuratori che ha condotto l’inchiesta, Luigi Patronaggio, ha così sintetizzato il frutto delle sue indagini, e della sua esperienza umana a contatto con don Puglisi, in una bella pagina: “Come spesso avviene negli omicidi di mafia, vi è stato un convergere di cause, alcune rispondenti a una strategia alta, altre a logiche di basso profilo, altre ancora legate alla mera cattiveria umana. Don Puglisi toglieva i bambini dalle strade, insegnava la legalità e l’antimafia, a non abbassare la schiena, ad essere protagonisti della propria esistenza, faceva capire che la giustizia sociale è cara a Dio quanto l’essere pio e casto. Era contro il paganesimo, le confraternite e la religiosità ipocrita e di facciata, assoggettata ai potenti e alla mafia. Rifiutava la politica intesa come clientelismo e asservimento. Reclamava diritti e vivibilità per la gente del suo quartiere. Era duro contro i politici e gli amministratori inetti, sordi ed incapaci. Era solo, con i suoi bambini e i suoi ingenui collaboratori.
“E’ stata la vittima di una strategia d’attacco alla Chiesa militante, attraverso un filo che passa dal discorso del Papa ad Agrigento, all’attentato a San Giovanni in Laterano e San Giorgio a Roma…Forse è incappato nella tragica derisione di Bagarella nei confronti dei fratelli Graviano per la loro incapacità di “togliersi il disturbo da dentro casa”. Forse era anche un poco comunista. O forse era solo destino che un uomo umile rientrasse in un disegno divino, che semplicemente dovesse morire per insegnarci ad essere uomini, per insegnarci a diventare grandi con gli occhi e le speranza dei bambini. Per insegnarci che qualsiasi violenza ai bambini, ai deboli, all’uomo è fatta direttamente a Dio e grida giustizia” (26).
Note
21) Sulla biografia e sugli atti giudiziari mi permetto di citare F. Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, Rizzoli 2013. Più in generale sui delitti e i processi di mafia cfr. G. Di Lello, Giudici: cinquant’anni di processi di mafia, Palermo 1994.
22) S. Di Cristina, in Don Pino Puglisi prete e martire, cit. 64.
23) F. Deliziosi, cit., 254.
24) Osservatore Romano, 21 settembre 1993.
25) La ricostruzione delle rivelazioni di Mannoia è tratta, tra l’altro, dal Corriere della Sera del 24 settembre 1993. La citazione del pentito L. Messina è tratta da M. Coscia (a cura di) Il patto scellerato, potere e politica di un regime mafioso, Roma 1993, 114. Altri studiosi, tra cui Umberto Santino, hanno fatto notare che, in realtà, all’inizio del Novecento diversi sacerdoti furono uccisi dalla mafia per aver svolto “attività non gradite” al fianco di contadini e lavoratori. Santino ricorda Giorgio Gennaro ucciso nel 1916 a Ciaculli, Costantino Stella, arciprete di Resuttano, ucciso nel 1919 e Stefano Caronia, arciprete di Gibellina, ucciso nel 1920. “Sono preti sociali – scrive Santino – la cui attività si lega all’insegnamento di Leone XIII e all’azione di don Sturzo” (da U. Santino, Chiesa, mondo, cattolico e mafia in Narcomafie, luglio-agosto 2001, 48-53)
26) L. Patronaggio, Lugubri quegli anni, in Alla luce del sole, Roma 2005. E’ il volume che contiene la sceneggiatura del film di Roberto Faenza su don Puglisi. Le citazioni precedenti dei pentiti e della sentenza sono in F. Deliziosi, cit., 237-241.
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