MAFIA E VANGELO INCOMPATIBILI
Nel novembre del '93, al terzo convegno delle Chiese di Sicilia ad Acireale ("Nuova evangelizzazione e pastorale") padre Pino fu citato in numerose relazioni (27). Ma si pose anche con forza la questione della necessità di un'autocritica all'interno della Chiesa. Già nella relazione iniziale il vescovo di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro, aveva avviato così la riflessione: "La cultura mafiosa ha aggredito alcuni valori cristiani e li ha deformati. Famiglia=cosca; dignità=onore; amicizia=spirito del clan. E Cosa Nostra ha anche aggredito alcune parrocchie, appropriandosi talora delle feste religiose e usando i sacramenti per veicolare la sua antropologia".
"Una montagna di domande attende risposte - aggiunse il vescovo - Come mai tale fenomeno tra i battezzati? Che cosa è mancato? Che cosa si è taciuto? Quale significato bisogna dare al silenzio e all'indifferenza? La prassi pastorale delle parrocchie tiene conto di questi interrogativi? La predicazione ha individuato i temi fondamentali ai quali dar risposta nell'annunzio del Vangelo?". Monsignor Ferraro concludeva: "La mafia come oppressione richiede un progetto evangelico di liberazione. Bisogna provvedere. Urge una riflessione seria, una risposta puntuale".
Al convegno era stato invitato l’allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. All'inizio del suo intervento disse di parlare "non tanto da magistrato ma soprattutto da cristiano", aggiungendo poi: "Falcone, Borsellino, don Puglisi. Se sono morti è stato certamente perché lo Stato - ma anche noi, noi cristiani, noi Chiesa - non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere: Stato, cristiani, Chiesa. Questi uomini sono per noi segno di riscatto civile, morale, religioso. Ma sono anche una condanna. Essi non hanno visto, nel loro tempo, quello in cui speravano". Da credente il magistrato poneva le questioni piu' scomode alla sua Chiesa: "Una presenza significativa esige coraggio. Il coraggio dell'autocritica. Il coraggio di rinnovare, di permeare di audacia la propria testimonianza. Occorre superare un agire a volte troppo vecchio, oppure troppo timoroso, rinchiuso nelle sacrestie...L'identificazione esclusiva del cristiano nella prassi liturgico-sacramentale non apre al coraggio dell'autocritica".
"E' necessario - proseguiva il procuratore - analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa - ma anche della società civile - hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, hanno potuto conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società. Resta da capire perché la Chiesa ha saputo mostrare tanta severità, giusta e sacrosanta, nei confronti di una ideologia totalitaria e invece ha spesso manifestato tolleranza verso la sacralità atea della mafia. Quali sono i motivi di questo differente giudizio? Quali le ragioni di questi errori e di questi ritardi?". La relazione del procuratore si concluse con un lungo applauso di molti partecipanti al convegno, che si alzarono in piedi "come davanti al Vangelo": così commentò con un sorriso il cardinale Pappalardo. Altri convegnisti rimasero in silenzio e poi criticarono il magistrato.
L'arcivescovo di Palermo, nell'omelia pronunciata nel Duomo di Catania a conclusione dei lavori, diede spazio al processo di revisione, pur sottolineando che "non erano mancate negli ultimi decenni le aperte condanne" dei mafiosi: "Ci siamo interrogati, come singoli e come Chiesa, - disse il cardinale Pappalardo, riferendosi al convegno - rendendoci conto che non sempre, forse, nel passato sono state chiaramente percepite l'intrinseca gravità e le nefaste conseguenze tanto sociali che ecclesiali del fenomeno mafioso, fino a ingenerare l'impressione che certi diffusi silenzi o non troppo esplicite ed articolate condanne potessero essere segno di insensibilità o di tacita convivenza".
Quanto alla Chiesa "tra le invocazioni di perdono che abbiamo elevato al Signore in questi giorni c'è stata anche quella per tutte le volte in cui la nostra pastorale, meno sollecita nei confronti di mali così grandi, è servita solo per noi stessi, mortificando la nostra missione di annuncio".
Uno dei collaboratori piu' stretti del Cardinale, Giuseppe Savagnone, un laico responsabile per tutta la Sicilia della pastorale per la Cultura, sempre nel novembre '93 anticipava in un'intervista ad "Avvenire" i temi di un suo studio già citato (pubblicato poi con prefazione dello stesso Pappalardo) in cui parlava esplicitamente di una "coabitazione troppo pacifica", in passato, tra Chiesa e mafia, analizzandone le cause storiche.
Savagnone osservava come nella seconda metà degli anni Ottanta i vescovi siciliani avessero "sospeso o almeno rallentato l'opera di denunzia". Nel volume si leggeva anche della "solitudine" del cardinale Pappalardo nella sua opera di contrasto alla mafia dopo l'omelia di Sagunto (1982) per il generale Dalla Chiesa. E del suo mutato atteggiamento negli anni successivi - soprattutto all'epoca del maxi-processo alla mafia (1985-6) -, che fu "avvertito da una parte della società civile e della comunità ecclesiale come un tirarsi indietro". Questa posizione di "riserbo" veniva comunque spiegata con la preoccupazione del cardinale "di non essere imprigionato nel ruolo di vescovo antimafia da parte dell'opinione pubblica". E con la necessità di "evitare l'identificazione tra l'intero popolo siciliano e la mafia".
Veniva in superficie una materia incandescente, che per anni aveva riempito libri e giornali di polemiche. L'"effetto Puglisi" donò sincerità e schiettezza al dibattito nella Chiesa. A gennaio del '94 altri prelati aggiunsero il proprio pensiero alla fase del "mea culpa". In un incontro a Cefalu' (28) organizzato dal vescovo di allora, Rosario Mazzola, così si espresse monsignor Vincenzo Cirrincione, all’epoca guida della diocesi di Piazza Armerina (e amico di vecchia data di don Puglisi): "La mafia all'inizio sembrava criminalità ordinaria. Soltanto in ritardo ci siamo accorti che non era così...Negli anni Settanta alcuni vescovi affermavano che nella loro diocesi non c'era la mafia, che si trattava di un fenomeno di alcune parti della Sicilia. Invece ci si è accorti dopo qualche anno che anche in quelle terre c'era la mafia e anzi proprio in quelle diocesi c'erano i centri organizzativi". Monsignor Cirrincione sottolineava anche un secondo aspetto: "Non si sono considerati nel pieno della loro valenza negativa il favoritismo, la raccomandazione, il clientelismo, gli appalti. Non abbiamo capito che così si favoriva la mafia. Queste sono colpe nostre". Da dove ricominciare? "Dalla catechesi dei bambini, il nostro futuro. Insegnamo a non uccidere, don Puglisi è stato assassinato proprio perché diceva che la vendetta era contro il Vangelo".
Monsignor Francesco Miccichè, all'epoca vescovo ausiliare di Messina (oggi è a capo della diocesi di Trapani): "La cultura della mafiosità è prepotenza, è il non rispetto delle leggi. Anche noi, pur di costruire chiese, ci siamo prestati a qualcosa di poco lecito. Se la mafia è denaro, è potere, la Chiesa di Sicilia deve riconoscere di non aver preso coscienza per tempo del peccato: questo è stato il messaggio del procuratore Caselli ad Acireale". Il vescovo di Patti, monsignor Ignazio Zambito, portò un esempio: "La mia Chiesa si è fatta promotrice di iniziative in favore del Parco dei Nebrodi. Mi è stato fatto arrivare un messaggio: che c'entra la Chiesa col parco? Perché non si occupa di spiritualità? Ecco, per dirla in maniera cruda: l'uomo può farsi o non farsi i fatti suoi. Se la Chiesa sceglie di non farsi i fatti propri e s'impegna nel territorio già innesca la lotta contro la mafia". Anche il "padrone di casa", monsignor Mazzola (pure lui era stato in buoni rapporti con Puglisi), difese Caselli: «E' stato molto criticato per il suo intervento - disse - ma nessuno ha ricordato la sua prima frase: "Io parlo non da giudice ma da cristiano". Non ha puntato il dito contro nessuno, con tutti noi ha fatto "mea culpa"».
Da queste premesse nacque un documento (29) della Conferenza episcopale siciliana, del maggio '94, che è una pietra miliare, sintesi degli stimoli giunti dal Papa e dal convegno. Si proponeva don Puglisi come modello per tutto il clero. «E' nostro dovere - scrissero i vescovi - ribadire la denuncia dell'incompatibilità della mafia con il Vangelo. La mafia appartiene, senza possibilità di eccezione, al regno del peccato, e fa dei suoi operatori altrettanti operai del Maligno". La condanna non era solo per Cosa nostra ma si allargava anche ai conniventi: "Tutti coloro che aderiscono alla mafia o pongono atti di connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesu' Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della comunione della sua Chiesa».
Inutile pensare - come certi mafiosi che praticano una religiosità esteriore - di poter neutralizzare questo monito "con atti esteriori di devozione o con elargizioni benefiche. Siffatte manifestazioni dovranno essere considerate strumentali e perciò false ed esse stesse peccaminose". Ai siciliani, spesso inclini al clientelismo e alla richiesta di favori, i vescovi ricordavano con durezza: "Chiedere o accettare qualsiasi forma di intermediazione a persone conosciute come appartenenti o contigue alla mafia - qualunque sia il vantaggio che se ne voglia o possa ricavare - si deve ritenere che rientri sempre, quanto meno indirettamente, ma non meno colpevolmente, nella fattispecie della connivenza e della collusione".
Nel documento i vescovi siciliani sottolineavano di voler opporre alla mafia "la forza disarmata ma irriducibile del Vangelo...rivolta alla promozione e alla conversione delle persone, ma nello stesso tempo intransigente nel non autorizzare sconti o ingenue transazioni per ciò che concerne il male, chiunque sia a commetterlo o a trarne profitto". Ed ecco il riferimento a padre Pino: "Don Giuseppe Puglisi ha incarnato pienamente questa duplice forza del Vangelo: egli rappresenta un'indicazione per tutti noi; il modello che ne deriva per il clero di Sicilia e per ogni vero cristiano è la sfida che lanciamo a chiunque gli competa".
Qualche mese dopo, pochi giorni dopo la visita del Papa nel '94, anche la Chiesa di Palermo approvava un documento di svolta nella lotta contro la mafia: sulla scia del pronunciamento dei vescovi, si passava - dal momento della denuncia e del generico invito alla conversione dei cuori - sul terreno dei comportamenti necessari per risanare la società, facendo tesoro della lezione di concretezza di padre Puglisi. Un contributo decisivo alla preparazione del testo arrivò infatti da alcuni giovani sacerdoti che erano stati molto vicini al parroco di Brancaccio.
Il documento, richiamandone altri della Cei, segnava "il netto e deciso passaggio da una pastorale sacramentale ad una pastorale evangelizzatrice e missionaria". Di fronte a una società ampiamente scristianizzata o cristiana solo formalmente, con schiettezza si rimarcava a tutto il clero che "non si deve credere che la crescita della Chiesa sia misurabile col numero dei sacramenti distribuiti". E che "bisogna costruire una Chiesa viva, fatta da credenti piu' che di praticanti". Si fissavano poi alcune indicazioni per "superare ogni parrocchialismo e individualismo", nel tentativo di spingere i sacerdoti verso uno stile comunitario e una "pastorale d'insieme" sul territorio, aperta ai "bisogni umani e religiosi" della gente.
Il testo ricordava anche l'impegno a "non dimenticare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti i morti nella lotta contro la mafia e a ricordarli come nostri familiari, per noi caduti". Ma la parte piu' nuova era la conclusione del testo, un vero e proprio vademecum il cui uso doveva servire pure per evitare che "all'interno della comunità ecclesiale si riproducano modi di essere mafiosi". Alcuni punti richiamavano direttamente il caso Puglisi. Occorre - stabiliva la Chiesa palermitana - "purificare tutte le espressioni della devozione popolare, rianimando di valori cristiani le processioni, sciogliendo comitati di festa religiosa dove prevalesse l'interesse economico"; occorre "vigilare affinché si eviti ogni possibile collateralismo tra realtà ecclesiali ed uomini e partiti politici"; occorre "rendere in ogni modo protagonisti i poveri, evitando ogni forma di marginalità ed emarginazione"; occorre "inserire in ogni tipo di cammino catechistico tematiche riguardanti la cultura della legalità e la dottrina sociale della Chiesa".
Poi, citando esplicitamente don Puglisi, il documento invitava ogni prete, ogni cristiano "a dialogare con ogni persona, cercando sempre di capire le ragioni profonde dell'altro e sviluppando una mentalità di pace e di non violenza"; "a non chiedere o accettare mai alcuna forma di raccomandazione o favoreggiamento; "a non acquistare merce controllata dalla mafia come le sigarette di contrabbando"; "a non acquistare o accettare la restituzione di merce rubata (auto, motorini...) grazie all'opera di discutibili mediatori"; "a non giocare scommesse clandestine, totonero ed ogni altra illecita forma di gioco"; la Chiesa invitava infine "a non accettare con rassegnazione la logica del pizzo e dell'usura, ma a sforzarsi di trovare vie associative di lotta in collaborazione con tutte le forze sane presenti ed operanti nelle istituzioni e nella società
civile".
In una lettera che accompagnava il documento il cardinale Pappalardo ricordava don Puglisi e gli altri sacerdoti "negli ultimi tempi fatti oggetto di pesanti minacce di mafiosi". E avanzava una meditazione che ha fatto parlare di un ulteriore e definitivo salto di qualità dell'antimafia cristiana: "Non era la loro (di Puglisi e degli altri preti, nda) una personale, privata scelta di lotta contro la mafia, quasi un impegno politico da svolgere insieme con altri, ma la conseguenza logica e teologica dell'aver preso sul serio l'evangelizzazione del territorio e la sua promozione. Non è questo un fattore opzionale della prassi ecclesiale, ma un vero e proprio luogo teologico, dove la Chiesa stessa si riconosce e si autorealizza come tale...Le vicende di questi giorni aprono la strada al passaggio da un impegno individuale e personale nei riguardi della mafia ad una dimensione comunitaria".
Non aveva piu' ragion d'essere la strumentale divisione tra i preti antimafia e gli altri preti. Tutti i sacerdoti, anche coloro che ritengono (si illudono?) che nella propria parrocchia non ci sia la mafia, sono chiamati a un impegno esplicito. Non solo a parole ma contrastando i comportamenti illegali, le ambiguità di certe processioni, le raccolte di soldi e gli occhiuti sponsor politici. E tutto ciò non va considerato un "optional", da aggiungere - tempo permettendo - a messe, battesimi, comunioni, cresime, ma appunto un luogo teologico cioè "la situazione storica attraverso cui Dio interpella la sua Chiesa".
Su questo punto don Stabile riflette così: "La morte di Puglisi rivelava che l'esigenza di una pastorale inserita nella realtà del territorio e che coglieva l'uomo nella sua storicità stava penetrando nel tessuto ecclesiale". Lo studioso nota in questi documenti anche una novità nel linguaggio e nell'atteggiamento del cardinale: "Sembrava che l'arcivescovo, abbandonando preoccupazioni, polemiche e titubanze dopo la morte di don Puglisi, volesse ricollegarsi con la linea pastorale coraggiosa che si era delineata a Palermo tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, che tante speranze aveva suscitato".
E lo storico conclude: “Una soluzione alla pastorale della Chiesa siciliana in questo momento storico si è trovata quindi assumendo il modello pastorale che condusse Puglisi al martirio…Semmai il problema che ora si pone è quello della ricerca delle modalità di essere di quella pastorale. Il dibattito quindi riprende su due direttive: definire i modi e il linguaggio propri della Chiesa e compiere gesti che favoriscano la comunicazione evangelica e la conversione”.
Tutta la Chiesa è quindi chiamata a interrogarsi su come arrivare a “un vero e permanente stato di conversione e riforma per affrontare in modo evangelico e senza paura la modernità, abbandonando i vecchi schemi rassicuranti e compromissori di appoggio al potere e di autoaffermazione nella società” (30). Altrimenti, per dirla con Nino Fasullo: “Ora la Chiesa è cambiata, ha preso posizione. Ha prodotto negli anni Novanta documenti energici. Ma se i documenti non sono vissuti, discussi, rimangono agli atti, passano agli archivi, non restano vivi, non diventano vita. Ecco: credo che ci sia bisogno che la Chiesa si apra ancora di fronte a questo problema” (31).
A distanza di tanti anni, la sfida per il futuro è allora proprio quella delineata da Puglisi, che va fatta propria dalla Chiesa intera: i comitati per le feste religiose, soprattutto nelle periferie, sono stati depurati da presenze estranee, da interessi economici e da infiltrazioni mafiose? E’ stata fatta una scelta preferenziale per i poveri e gli ultimi? E’ stato superato il parrocchialismo? Sono stati fatti passi avanti verso la collaborazione tra le comunità della città ricca e quelle dei quartieri degradati? Esiste ancora il collateralismo politico? Le parrocchie si prestano ancora a essere una grancassa elettorale? Siamo consapevoli degli errori del passato? Oppure si ripropone il rischio, come negli anni Cinquanta e Sessanta, di guardare con miope favore a partiti o uomini politici che, di fronte ad adesioni di facciata al cattolicesimo, sono invece garanti di un sistema di corruzioni e collusioni? Dalle risposte che verranno a queste domande dipende indubbiamente il futuro cammino della Chiesa e della società siciliana. E del loro rapporto con i poteri (legali e illegali) dell’Isola, dell’Italia.
"Una montagna di domande attende risposte - aggiunse il vescovo - Come mai tale fenomeno tra i battezzati? Che cosa è mancato? Che cosa si è taciuto? Quale significato bisogna dare al silenzio e all'indifferenza? La prassi pastorale delle parrocchie tiene conto di questi interrogativi? La predicazione ha individuato i temi fondamentali ai quali dar risposta nell'annunzio del Vangelo?". Monsignor Ferraro concludeva: "La mafia come oppressione richiede un progetto evangelico di liberazione. Bisogna provvedere. Urge una riflessione seria, una risposta puntuale".
Al convegno era stato invitato l’allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. All'inizio del suo intervento disse di parlare "non tanto da magistrato ma soprattutto da cristiano", aggiungendo poi: "Falcone, Borsellino, don Puglisi. Se sono morti è stato certamente perché lo Stato - ma anche noi, noi cristiani, noi Chiesa - non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere: Stato, cristiani, Chiesa. Questi uomini sono per noi segno di riscatto civile, morale, religioso. Ma sono anche una condanna. Essi non hanno visto, nel loro tempo, quello in cui speravano". Da credente il magistrato poneva le questioni piu' scomode alla sua Chiesa: "Una presenza significativa esige coraggio. Il coraggio dell'autocritica. Il coraggio di rinnovare, di permeare di audacia la propria testimonianza. Occorre superare un agire a volte troppo vecchio, oppure troppo timoroso, rinchiuso nelle sacrestie...L'identificazione esclusiva del cristiano nella prassi liturgico-sacramentale non apre al coraggio dell'autocritica".
"E' necessario - proseguiva il procuratore - analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa - ma anche della società civile - hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, hanno potuto conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società. Resta da capire perché la Chiesa ha saputo mostrare tanta severità, giusta e sacrosanta, nei confronti di una ideologia totalitaria e invece ha spesso manifestato tolleranza verso la sacralità atea della mafia. Quali sono i motivi di questo differente giudizio? Quali le ragioni di questi errori e di questi ritardi?". La relazione del procuratore si concluse con un lungo applauso di molti partecipanti al convegno, che si alzarono in piedi "come davanti al Vangelo": così commentò con un sorriso il cardinale Pappalardo. Altri convegnisti rimasero in silenzio e poi criticarono il magistrato.
L'arcivescovo di Palermo, nell'omelia pronunciata nel Duomo di Catania a conclusione dei lavori, diede spazio al processo di revisione, pur sottolineando che "non erano mancate negli ultimi decenni le aperte condanne" dei mafiosi: "Ci siamo interrogati, come singoli e come Chiesa, - disse il cardinale Pappalardo, riferendosi al convegno - rendendoci conto che non sempre, forse, nel passato sono state chiaramente percepite l'intrinseca gravità e le nefaste conseguenze tanto sociali che ecclesiali del fenomeno mafioso, fino a ingenerare l'impressione che certi diffusi silenzi o non troppo esplicite ed articolate condanne potessero essere segno di insensibilità o di tacita convivenza".
Quanto alla Chiesa "tra le invocazioni di perdono che abbiamo elevato al Signore in questi giorni c'è stata anche quella per tutte le volte in cui la nostra pastorale, meno sollecita nei confronti di mali così grandi, è servita solo per noi stessi, mortificando la nostra missione di annuncio".
Uno dei collaboratori piu' stretti del Cardinale, Giuseppe Savagnone, un laico responsabile per tutta la Sicilia della pastorale per la Cultura, sempre nel novembre '93 anticipava in un'intervista ad "Avvenire" i temi di un suo studio già citato (pubblicato poi con prefazione dello stesso Pappalardo) in cui parlava esplicitamente di una "coabitazione troppo pacifica", in passato, tra Chiesa e mafia, analizzandone le cause storiche.
Savagnone osservava come nella seconda metà degli anni Ottanta i vescovi siciliani avessero "sospeso o almeno rallentato l'opera di denunzia". Nel volume si leggeva anche della "solitudine" del cardinale Pappalardo nella sua opera di contrasto alla mafia dopo l'omelia di Sagunto (1982) per il generale Dalla Chiesa. E del suo mutato atteggiamento negli anni successivi - soprattutto all'epoca del maxi-processo alla mafia (1985-6) -, che fu "avvertito da una parte della società civile e della comunità ecclesiale come un tirarsi indietro". Questa posizione di "riserbo" veniva comunque spiegata con la preoccupazione del cardinale "di non essere imprigionato nel ruolo di vescovo antimafia da parte dell'opinione pubblica". E con la necessità di "evitare l'identificazione tra l'intero popolo siciliano e la mafia".
Veniva in superficie una materia incandescente, che per anni aveva riempito libri e giornali di polemiche. L'"effetto Puglisi" donò sincerità e schiettezza al dibattito nella Chiesa. A gennaio del '94 altri prelati aggiunsero il proprio pensiero alla fase del "mea culpa". In un incontro a Cefalu' (28) organizzato dal vescovo di allora, Rosario Mazzola, così si espresse monsignor Vincenzo Cirrincione, all’epoca guida della diocesi di Piazza Armerina (e amico di vecchia data di don Puglisi): "La mafia all'inizio sembrava criminalità ordinaria. Soltanto in ritardo ci siamo accorti che non era così...Negli anni Settanta alcuni vescovi affermavano che nella loro diocesi non c'era la mafia, che si trattava di un fenomeno di alcune parti della Sicilia. Invece ci si è accorti dopo qualche anno che anche in quelle terre c'era la mafia e anzi proprio in quelle diocesi c'erano i centri organizzativi". Monsignor Cirrincione sottolineava anche un secondo aspetto: "Non si sono considerati nel pieno della loro valenza negativa il favoritismo, la raccomandazione, il clientelismo, gli appalti. Non abbiamo capito che così si favoriva la mafia. Queste sono colpe nostre". Da dove ricominciare? "Dalla catechesi dei bambini, il nostro futuro. Insegnamo a non uccidere, don Puglisi è stato assassinato proprio perché diceva che la vendetta era contro il Vangelo".
Monsignor Francesco Miccichè, all'epoca vescovo ausiliare di Messina (oggi è a capo della diocesi di Trapani): "La cultura della mafiosità è prepotenza, è il non rispetto delle leggi. Anche noi, pur di costruire chiese, ci siamo prestati a qualcosa di poco lecito. Se la mafia è denaro, è potere, la Chiesa di Sicilia deve riconoscere di non aver preso coscienza per tempo del peccato: questo è stato il messaggio del procuratore Caselli ad Acireale". Il vescovo di Patti, monsignor Ignazio Zambito, portò un esempio: "La mia Chiesa si è fatta promotrice di iniziative in favore del Parco dei Nebrodi. Mi è stato fatto arrivare un messaggio: che c'entra la Chiesa col parco? Perché non si occupa di spiritualità? Ecco, per dirla in maniera cruda: l'uomo può farsi o non farsi i fatti suoi. Se la Chiesa sceglie di non farsi i fatti propri e s'impegna nel territorio già innesca la lotta contro la mafia". Anche il "padrone di casa", monsignor Mazzola (pure lui era stato in buoni rapporti con Puglisi), difese Caselli: «E' stato molto criticato per il suo intervento - disse - ma nessuno ha ricordato la sua prima frase: "Io parlo non da giudice ma da cristiano". Non ha puntato il dito contro nessuno, con tutti noi ha fatto "mea culpa"».
Da queste premesse nacque un documento (29) della Conferenza episcopale siciliana, del maggio '94, che è una pietra miliare, sintesi degli stimoli giunti dal Papa e dal convegno. Si proponeva don Puglisi come modello per tutto il clero. «E' nostro dovere - scrissero i vescovi - ribadire la denuncia dell'incompatibilità della mafia con il Vangelo. La mafia appartiene, senza possibilità di eccezione, al regno del peccato, e fa dei suoi operatori altrettanti operai del Maligno". La condanna non era solo per Cosa nostra ma si allargava anche ai conniventi: "Tutti coloro che aderiscono alla mafia o pongono atti di connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesu' Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della comunione della sua Chiesa».
Inutile pensare - come certi mafiosi che praticano una religiosità esteriore - di poter neutralizzare questo monito "con atti esteriori di devozione o con elargizioni benefiche. Siffatte manifestazioni dovranno essere considerate strumentali e perciò false ed esse stesse peccaminose". Ai siciliani, spesso inclini al clientelismo e alla richiesta di favori, i vescovi ricordavano con durezza: "Chiedere o accettare qualsiasi forma di intermediazione a persone conosciute come appartenenti o contigue alla mafia - qualunque sia il vantaggio che se ne voglia o possa ricavare - si deve ritenere che rientri sempre, quanto meno indirettamente, ma non meno colpevolmente, nella fattispecie della connivenza e della collusione".
Nel documento i vescovi siciliani sottolineavano di voler opporre alla mafia "la forza disarmata ma irriducibile del Vangelo...rivolta alla promozione e alla conversione delle persone, ma nello stesso tempo intransigente nel non autorizzare sconti o ingenue transazioni per ciò che concerne il male, chiunque sia a commetterlo o a trarne profitto". Ed ecco il riferimento a padre Pino: "Don Giuseppe Puglisi ha incarnato pienamente questa duplice forza del Vangelo: egli rappresenta un'indicazione per tutti noi; il modello che ne deriva per il clero di Sicilia e per ogni vero cristiano è la sfida che lanciamo a chiunque gli competa".
Qualche mese dopo, pochi giorni dopo la visita del Papa nel '94, anche la Chiesa di Palermo approvava un documento di svolta nella lotta contro la mafia: sulla scia del pronunciamento dei vescovi, si passava - dal momento della denuncia e del generico invito alla conversione dei cuori - sul terreno dei comportamenti necessari per risanare la società, facendo tesoro della lezione di concretezza di padre Puglisi. Un contributo decisivo alla preparazione del testo arrivò infatti da alcuni giovani sacerdoti che erano stati molto vicini al parroco di Brancaccio.
Il documento, richiamandone altri della Cei, segnava "il netto e deciso passaggio da una pastorale sacramentale ad una pastorale evangelizzatrice e missionaria". Di fronte a una società ampiamente scristianizzata o cristiana solo formalmente, con schiettezza si rimarcava a tutto il clero che "non si deve credere che la crescita della Chiesa sia misurabile col numero dei sacramenti distribuiti". E che "bisogna costruire una Chiesa viva, fatta da credenti piu' che di praticanti". Si fissavano poi alcune indicazioni per "superare ogni parrocchialismo e individualismo", nel tentativo di spingere i sacerdoti verso uno stile comunitario e una "pastorale d'insieme" sul territorio, aperta ai "bisogni umani e religiosi" della gente.
Il testo ricordava anche l'impegno a "non dimenticare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti i morti nella lotta contro la mafia e a ricordarli come nostri familiari, per noi caduti". Ma la parte piu' nuova era la conclusione del testo, un vero e proprio vademecum il cui uso doveva servire pure per evitare che "all'interno della comunità ecclesiale si riproducano modi di essere mafiosi". Alcuni punti richiamavano direttamente il caso Puglisi. Occorre - stabiliva la Chiesa palermitana - "purificare tutte le espressioni della devozione popolare, rianimando di valori cristiani le processioni, sciogliendo comitati di festa religiosa dove prevalesse l'interesse economico"; occorre "vigilare affinché si eviti ogni possibile collateralismo tra realtà ecclesiali ed uomini e partiti politici"; occorre "rendere in ogni modo protagonisti i poveri, evitando ogni forma di marginalità ed emarginazione"; occorre "inserire in ogni tipo di cammino catechistico tematiche riguardanti la cultura della legalità e la dottrina sociale della Chiesa".
Poi, citando esplicitamente don Puglisi, il documento invitava ogni prete, ogni cristiano "a dialogare con ogni persona, cercando sempre di capire le ragioni profonde dell'altro e sviluppando una mentalità di pace e di non violenza"; "a non chiedere o accettare mai alcuna forma di raccomandazione o favoreggiamento; "a non acquistare merce controllata dalla mafia come le sigarette di contrabbando"; "a non acquistare o accettare la restituzione di merce rubata (auto, motorini...) grazie all'opera di discutibili mediatori"; "a non giocare scommesse clandestine, totonero ed ogni altra illecita forma di gioco"; la Chiesa invitava infine "a non accettare con rassegnazione la logica del pizzo e dell'usura, ma a sforzarsi di trovare vie associative di lotta in collaborazione con tutte le forze sane presenti ed operanti nelle istituzioni e nella società
civile".
In una lettera che accompagnava il documento il cardinale Pappalardo ricordava don Puglisi e gli altri sacerdoti "negli ultimi tempi fatti oggetto di pesanti minacce di mafiosi". E avanzava una meditazione che ha fatto parlare di un ulteriore e definitivo salto di qualità dell'antimafia cristiana: "Non era la loro (di Puglisi e degli altri preti, nda) una personale, privata scelta di lotta contro la mafia, quasi un impegno politico da svolgere insieme con altri, ma la conseguenza logica e teologica dell'aver preso sul serio l'evangelizzazione del territorio e la sua promozione. Non è questo un fattore opzionale della prassi ecclesiale, ma un vero e proprio luogo teologico, dove la Chiesa stessa si riconosce e si autorealizza come tale...Le vicende di questi giorni aprono la strada al passaggio da un impegno individuale e personale nei riguardi della mafia ad una dimensione comunitaria".
Non aveva piu' ragion d'essere la strumentale divisione tra i preti antimafia e gli altri preti. Tutti i sacerdoti, anche coloro che ritengono (si illudono?) che nella propria parrocchia non ci sia la mafia, sono chiamati a un impegno esplicito. Non solo a parole ma contrastando i comportamenti illegali, le ambiguità di certe processioni, le raccolte di soldi e gli occhiuti sponsor politici. E tutto ciò non va considerato un "optional", da aggiungere - tempo permettendo - a messe, battesimi, comunioni, cresime, ma appunto un luogo teologico cioè "la situazione storica attraverso cui Dio interpella la sua Chiesa".
Su questo punto don Stabile riflette così: "La morte di Puglisi rivelava che l'esigenza di una pastorale inserita nella realtà del territorio e che coglieva l'uomo nella sua storicità stava penetrando nel tessuto ecclesiale". Lo studioso nota in questi documenti anche una novità nel linguaggio e nell'atteggiamento del cardinale: "Sembrava che l'arcivescovo, abbandonando preoccupazioni, polemiche e titubanze dopo la morte di don Puglisi, volesse ricollegarsi con la linea pastorale coraggiosa che si era delineata a Palermo tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, che tante speranze aveva suscitato".
E lo storico conclude: “Una soluzione alla pastorale della Chiesa siciliana in questo momento storico si è trovata quindi assumendo il modello pastorale che condusse Puglisi al martirio…Semmai il problema che ora si pone è quello della ricerca delle modalità di essere di quella pastorale. Il dibattito quindi riprende su due direttive: definire i modi e il linguaggio propri della Chiesa e compiere gesti che favoriscano la comunicazione evangelica e la conversione”.
Tutta la Chiesa è quindi chiamata a interrogarsi su come arrivare a “un vero e permanente stato di conversione e riforma per affrontare in modo evangelico e senza paura la modernità, abbandonando i vecchi schemi rassicuranti e compromissori di appoggio al potere e di autoaffermazione nella società” (30). Altrimenti, per dirla con Nino Fasullo: “Ora la Chiesa è cambiata, ha preso posizione. Ha prodotto negli anni Novanta documenti energici. Ma se i documenti non sono vissuti, discussi, rimangono agli atti, passano agli archivi, non restano vivi, non diventano vita. Ecco: credo che ci sia bisogno che la Chiesa si apra ancora di fronte a questo problema” (31).
A distanza di tanti anni, la sfida per il futuro è allora proprio quella delineata da Puglisi, che va fatta propria dalla Chiesa intera: i comitati per le feste religiose, soprattutto nelle periferie, sono stati depurati da presenze estranee, da interessi economici e da infiltrazioni mafiose? E’ stata fatta una scelta preferenziale per i poveri e gli ultimi? E’ stato superato il parrocchialismo? Sono stati fatti passi avanti verso la collaborazione tra le comunità della città ricca e quelle dei quartieri degradati? Esiste ancora il collateralismo politico? Le parrocchie si prestano ancora a essere una grancassa elettorale? Siamo consapevoli degli errori del passato? Oppure si ripropone il rischio, come negli anni Cinquanta e Sessanta, di guardare con miope favore a partiti o uomini politici che, di fronte ad adesioni di facciata al cattolicesimo, sono invece garanti di un sistema di corruzioni e collusioni? Dalle risposte che verranno a queste domande dipende indubbiamente il futuro cammino della Chiesa e della società siciliana. E del loro rapporto con i poteri (legali e illegali) dell’Isola, dell’Italia.
Note
27) Atti del convegno (a cura della Cesi) in due voll. La relazione di Ferraro in vol. I, 128 sgg., quella di Caselli in vol. I 237 sgg.
28) Giornale di Sicilia, 31 gennaio 1994
29) Nota pastorale della Cesi, Nuova evangelizzazione e pastorale, n.12, maggio 1994. I titoli dei due documenti palermitani sono “Aprite le porte a Cristo. Messaggio dell’arcivescovo” e “Scelte ed impegni pastorali della Chiesa palermitana. Documento dei consigli presbiterale e pastorale”, Arcidiocesi Palermo 1994.
30) F.M. Stabile, Don Pino Puglisi prete e martire, cit. 116-118.
31) Intervista all’Unità di S. Lodato 14 gennaio 2004.
27) Atti del convegno (a cura della Cesi) in due voll. La relazione di Ferraro in vol. I, 128 sgg., quella di Caselli in vol. I 237 sgg.
28) Giornale di Sicilia, 31 gennaio 1994
29) Nota pastorale della Cesi, Nuova evangelizzazione e pastorale, n.12, maggio 1994. I titoli dei due documenti palermitani sono “Aprite le porte a Cristo. Messaggio dell’arcivescovo” e “Scelte ed impegni pastorali della Chiesa palermitana. Documento dei consigli presbiterale e pastorale”, Arcidiocesi Palermo 1994.
30) F.M. Stabile, Don Pino Puglisi prete e martire, cit. 116-118.
31) Intervista all’Unità di S. Lodato 14 gennaio 2004.
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