di Giuseppe Savagnone
Alla luce dei recenti episodi che hanno visto riaccendersi
la polemica sul rapporto tra Chiese del Sud e criminalità organizzata –
pensiamo per esempio, a quello dell’“inchino” della statua della Madonna
davanti alla casa di un boss, nella diocesi di Oppido-Palmi, durante una
processione -, la ricorrenza del martirio di don Pino Puglisi acquista una
singolare attualità e diventa occasione per una più approfondita riflessione
sul problema.
Nessun dubbio che, in passato, per lungo tempo, Chiesa e mafia abbiano convissuto abbastanza
esplicitamente.
A volte anche con stretti legami di parentela. Calogero Vizzini,
capomafia di Villalba e, secondo molti, della “onorata società” in tutta la
Sicilia, aveva due fratelli sacerdoti uno dei quali abitava con lui; uno zio era
parroco del paese; un altro zio vescovo e un cugino anch'egli vescovo. La
commistione era abituale. I mafiosi facevano da padrini nei battesimi e nelle
cresime, organizzavano le feste patronali, partecipavano alle processioni. La
stessa ritualità mafiosa era compenetrata di simboli religiosi e sembrava
sancire una continuità con quella ecclesiastica. Né c’è da stupirsene troppo,
in un contesto storico – quello post-unitario - in cui sia la cultura popolare
che la Chiesa percepivano lo Stato e le
sue leggi come estranei e nemici.
Ma anche quando, all’indomani della seconda guerra mondiale,
le tensioni fra le due istituzioni
furono definitivamente superate, la consapevolezza della perversità del
fenomeno mafioso rimase bassissima. Anche qui, però, bisogna stare attenti a
non proiettare sul passato le nostre categorie di oggi. Si cita spesso, per
denunziare il (reale) ritardo della Chiesa siciliana, la famosa affermazione
del cardinale Ruffini secondo cui «la mafia non esiste». Meno spesso si ricorda
che in quegli stessi anni – in un articolo pubblicato nel 1955, in occasione della morte dello stesso Calogero Vizzini - il Procuratore Generale
presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, poté scrivere, senza
suscitare reazioni di sorta: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e
magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura,
la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera
del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (...) ha affiancato
addirittura le forze dell'ordine (...). Oggi si fa il nome di un autorevole
successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria
occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi
dello Stato e del miglioramento sociale della collettività» (cit. in P. Arlacchi,
La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e
lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 59-60).
Basta chiedersi cosa accadrebbe ai nostri giorni se un
altissimo magistrato facesse in pubblico simili dichiarazioni per rendersi
conto della diversità del clima e
contestualizzare anche i fraintendimenti e i silenzi della gerarchia
ecclesiastica.
Sta di fatto che questa stagione di cecità è finita,
speriamo per sempre. Stato e Chiesa hanno ormai da tempo preso coscienza –
almeno ufficialmente - della drammatica pericolosità della mafia e della
necessità di combatterla senza quartiere. Dopo le denunzie del cardinale
Pappalardo, a cui hanno fatto seguito tante altre, alcune anche più solenni –
dall’appassionato discorso di Giovanni Paolo II nella valle dei templi, nel
1993, fino alla durissima condanna con cui papa Francesco, appena nel giugno scorso, sulla piana di
Sibari, ha dichiarato scomunicati i mafiosi - , nessuno può in buona fede
sostenere, oggi, che la Chiesa tace.
Eppure, episodi come quello a cui si accennava all’inizio ci
avvertono che il problema non è risolto. Il fatto è che le denunzie non
bastano. La commistione della vita ecclesiale con la cultura della mafia potrà essere definitivamente superata solo attraverso
un profondo rinnovamento dello stile pastorale che ancora caratterizza tante
parrocchie del Sud. Uno stile su cui spesso pesa quel dualismo tra sfera del
“sacro” e sfera del “profano”, che ancora vizia tanta parte dell’esperienza
cristiana del nostro popolo. All’interno del tempio, si celebrano messe, prime
comunioni, matrimoni, battesimi, ma non si parla dei problemi della vita reale
di ogni giorno, tanto meno si formano le persone ad affrontarli in un spirito
evangelico. Cosicché, quando si esce, i presunti fedeli tornano ad essere quello
che erano prima di andare in chiesa,
adottando nelle loro scelte e nei loro comportamenti criteri in totale
contrasto con la loro fede.
È questo che accade a molti mafiosi e fiancheggiatori della
mafia, piissimi nelle funzioni e nelle
processioni, ma agli antipodi del
cristianesimo nel loro modo reale di vivere. Se la pastorale non riesce a
superare questa schizofrenia – che peraltro non riguarda solo i mafiosi - ,
continueremo ad avere chiese piene e processioni affollate, ma un vita sociale
dove, a livello sia privato che pubblico, la dimensione non solo cristiana, ma
anche semplicemente umana del Vangelo viene sistematicamente tradita.
Padre Puglisi lo aveva capito. Perciò si sforzava di educare le persone
ad essere al tempo stesso pienamente umane e coerentemente cristiane (i
due termini non si possono scindere), sia in chiesa che per le strade del
quartiere. Per questo non è necessario essere “preti antimafia”: basta essere
semplicemente preti. Il Vangelo è di per sé rivoluzionario. E don Pino è stato
ucciso perché indicava una strada semplice ed efficace, alla portata di tutti
i suoi confratelli, anzi di tutti i cristiani
che vogliono vivere seriamente la loro fede anche nella vita di ogni giorno e
che, perciò, avvertono di dover lottare -
anche a costo della propria vita - contro
tutto ciò che calpesta quell’immagine di Dio che è l’essere umano.
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