di Mons. Vincenzo Bertolone
«Non ho paura
delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti».
Ricordando don
Pino Puglisi a 21 anni dal suo martirio, tornano alla mente le sue parole,
negli ultimi giorni prese in prestito per molti articoli di cronaca a commento
delle minacce di Totò Riina, ascoltato dalle cimici della polizia giudiziaria
nel carcere di Opera mentre quasi si vanta dell’assassinio del parroco di
Brancaccio ed immagina analoga fine per don Luigi Ciotti.
La loro colpa?
«Succhiano aria alla mafia», lamenta il boss, indirettamente confermando
l’attendibilità del movente dell’omicidio, che ha poi portato alla
beatificazione del sacerdote palermitano: Puglisi voleva fare il prete fino in
fondo, e forte del Vangelo sottrarre i ragazzi alle grinfie della malavita, far
pensare, ridare fiducia alla gente.
Era, ed è ,
l’emblema della Chiesa che testimoniando Cristo ed annunciando il vangelo, fa
male alla mafia perché cerca di saldare
la terra al cielo. Come la Chiesa di Papa Francesco, che – come egli ci ricorda – deve camminare
nella quotidianità con la matura consapevolezza che «una fede autentica implica
sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo» da parte di cristiani che
non siano «vino annacquato».
Che cosa ci ha
consegnato don Puglisi, col suo martirio? Lo ricordava proprio don Luigi
Ciotti, in un articolo all’epoca per molti versi profetico, pubblicato su Avvenire il 15 settembre del 1994: «Egli
ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere
come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza ci sprona a sostenere
quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di
chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello
stare nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami». Pochi
cenni che restituiscono il ritratto dell’uomo che nella primavera del 1990
approda a Brancaccio, iniziando a bussare a tutte le porte perché, diceva,
«bisogna prima conoscere, poi capire, infine agire».
Non tutte le
porte si aprono. Alcune restano chiuse. Altre si spalancano sull’inferno: vite
miserabili, fame, malattie tenute segrete, invalidità nascoste. Famiglie intere
ridotte a vivere in un’unica stanza. E fuori un quartiere privo di tutto,
dall’illuminazione pubblica all’asilo, dal pronto soccorso alla scuola media.
Attorno, dentro e sopra ogni cosa, la
cupola mafiosa dei capi del mandamento, i fratelli Graviano.
Troppo scomodo,
quel prete, per gente abituata a comprare ogni cosa, anche gli uomini. Ma quel
sacerdote è senza prezzo non fa
professione di antimafia, non gira con
la scorta, non vive da eroe, ma la mafia
la combatte con l’esercizio coerente del suo ministero: sacramenti, liturgia, processioni, impegno sociale. E ancora,
dispensando il Verbo e coniugandolo col sostegno a battaglie di civiltà che
vogliono significare, da subito, istruzione, servizi, cultura, senso civico.
Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui
giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive
diverse. Ascolta,
don Puglisi. Tutto e tutti. Fa parte del suo modo d’essere: anche senza parlare
di religione o di Dio, nel delicato momento dell'approccio si apre alla
comprensione, specie degli ultimi e dei deboli, consapevole della necessità di
imparare prima a condividere a lungo il
pane e il vino con loro, rispettando i tempi di ciascuno, invitando ognuno a
scandagliare il proprio animo, per misurare le energie prima di scegliere un
traguardo. «Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a
comprendere. Il Signore bussa e sta alla porta. E bussa. Quando il cuore è
pronto si aprirà», ripeteva, conscio che l’importante fosse l’incontro con Cristo
Gesù Salvatore. «Venti, sessanta, cento anni,
la vita, a che serve – scriveva - se sbagliamo direzione? Ciò che
importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che
salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto,
anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».
E di un mondo
nuovo il Beato è stato interprete e costruttore. Prima di lui, ad ammazzare un prete che con coerenza vive il
vangelo, la mafia non si era ancora spinta. La chiesa era, tutto sommato, un
territorio franco. Se ne poteva sperare comprensione, rifugio. Ma quel prete
rischiava di rompere equilibri secolari. Arrivano allora la condanna, gli
spari, la morte. Sotto casa, in piazzale Anita Garibaldi, la sera del 15
settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno.
Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito
annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità
per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi
assumono la dimensione più vera. Oggi universalmente per i credenti egli
è il “testimone credibile perché coerente” con la “Parola”, per i non credenti
è un uomo ed un uomo di “Parola” poiché non si è tirato indietro davanti al
pericolo. Il suo sacrificio rivive nella coscienza di tutti, monito ai
cattolici ed agli uomini ed alle donne di buona volontà a dire no ai cattivi
maestri, ai soprusi, alla mentalità di morte. E tutti esorta a fare di più, con
continuità e coerenza, sempre, nella lotta alla mafia ed al male. La sua figura
sospinge la Chiesa ad imboccare la strada del cambiamento con la chiarezza
definitiva tracciata da Papa Francesco nella Piana di Sibari, ma impone anche
un nuovo modo di intendere e fare la politica e l’economia, attese all’unica
testimonianza vera e concreta contro le mafie: dimostrare d’essere impermeabili
alle influenze delle cosche.
Soprattutto
questo ci ha lasciato don Puglisi: una direzione e un senso per il nostro essere chiesa e mondo, un invito
per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati
e incisivi per perseguire giustizia e legalità vere, autentiche, genuine. Col
suo sangue il deserto s’è fatto terra fertile: a noi, ora, il compito di
rassodare e coltivare quotidianamente, perché dia frutti: coltivare quel campo
chiamato speranza.
+ Vincenzo Bertolone
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