di Pietro Grasso
Io penso che, per ricostruire la figura di don Pino Puglisi, sia necessario storicizzarla cioè inquadrarla nel periodo storico in cui ha vissuto gli ultimi anni di vita. Dobbiamo ricollegarci a una Chiesa siciliana che non sempre ha tuonato contro la mafia. In passato ci sono stati esempi certamente non esaltanti. Quando ero ragazzo, ricordo che un cardinale diceva che il pericolo non era la mafia ma i comunisti, perché i comunisti erano senza Dio e mangiavano i bambini, e la mafia tutto sommato era meglio dei comunisti.
Abbiamo fatto tanti passi avanti anche in Sicilia nel rapporto tra la comunità sociale, ecclesiale e questo fenomeno. Il primo segnale chiaro risale al cardinale Pappalardo quando venne ucciso il prefetto Dalla Chiesa; egli colpisce con le sue parole i politici presenti al funerale di Stato ed evoca Sagunto: mentre a Sagunto si fa la guerra, a Roma ci si consulta; la politica perde tempo, mentre la mafia uccide le persone.
Ci volle del tempo perché l’antimafia diventasse un’antimafia di tutta la comunità. Ci furono tanti preti, i cosiddetti preti coraggio, preti antimafia: non erano tutta la Chiesa, erano solo alcuni. Finché si arrivò alla condanna del fenomeno mafioso in un’omelia famosa di Giovanni Paolo II davanti al tempio della Concordia ad Agrigento.
Tralasciando il discorso ufficiale, lanciò il suo anatema, la condanna contro i mafiosi che toglievano la vita e la speranza a tante persone oneste. Era il maggio del 1993, qualche giorno dopo avviene la strage dei Georgofili a Firenze; nel ’92 c’erano state le stragi di Falcone e Borsellino (23 maggio e 19 luglio), quindi le stragi e le bombe di Roma e Milano. Qui dobbiamo inquadrare l’ultimo periodo della vita di padre Puglisi.
Una persona normale
Chi era padre Puglisi? Era un prete assolutamente comune, una persona normale. Era talmente disarmante la sua normalità che ha finito per essere rivoluzionario proprio per i temi che trattava. Che strana una città come Palermo, dove ad essere normali si può morire e ad essere normali si può diventare beati.
Cosa aveva incominciato a fare nel quartiere di Brancaccio proprio in quel momento molto grave in cui si registrava un attacco violento della mafia nei confronti di rappresentanti delle istituzioni come Falcone e Borsellino e del patrimonio artistico dello Stato facendo vittime innocenti? Lui continuava la sua azione pastorale evangelica nel quartiere. Si poteva equiparare a una missione come quella che siamo abituati a vedere lontano da noi nell’Africa, nel Sud e Centro America, tant’è che la sua figura mi ha sempre ricordato un evento che mi colpì nel 1980: l’uccisione di monsignor Romero in Salvador mentre celebrava messa.
Un colpo di fucile al momento dell’offertorio, caduto a terra con le ostie che rimasero intrise di sangue. Anche lui era stato ucciso perché cercava di difendere i poveri campesinos dalla violenza delle squadre della morte nella dittatura salvadoregna. Don Pino faceva un’attività pastorale normale, che però aveva un’importanza eccezionale in quel periodo, in quel momento, in quel luogo, nel quartiere di Brancaccio, dove i ragazzi avevano come maestra la strada, dove le strade erano lastricate di sangue per guerre di mafia.
Lui accusava i mafiosi in maniera chiara, aperta. Pensate che a una sua omelia nella piccola chiesa di Brancaccio era presente la sorella dei mafiosi Graviano, e lui apertamente accusava i Graviano di avere turbato la vita del quartiere togliendo i ragazzi dalla scuola, avviandoli verso lo spaccio della droga. Aveva cercato in tutti i modi di creare e dare appoggio a un Centro intercondominiale, il cosiddetto Centro intercondominiale di via Hazon.
Aveva riunito i condomini per protestare contro la presenza di spacciatori che usavano le cantine del complesso popolare per spacciare droga; li aveva messi tutti contro: contro i Graviano, contro la droga, contro quella violenza. Da qui a capire perché è stato ucciso il passo è breve. La mafia ha paura di chi parla e agisce contro in maniera aperta (vedi per esempio Libero Grassi, l’imprenditore ucciso perché si oppose alle richieste della mafia e denunciò gli estorsori), perché la mafia non può esistere senza il consenso della gente, si avvale del consenso sociale per poter affermare il proprio potere.
Un sistema autoritario non sopporta chi parla contro, diventa un pericolo perché sottrae la gente al consenso. Questa è la realtà in cui si inserisce don Pino, il quale aveva tra i suoi progetti quello di creare un Centro per i giovani del quartiere: il Centro Padre Nostro. Lui aveva questa idea del Padre Nostro; diceva: «È il Padre che deve essere Nostro, state attenti, non la Cosa che diventa cosa nostra».
C’era riuscito con pochissimi mezzi e con l’aiuto di tanti ragazzi come volontari. Aveva cercato di fare un campetto di calcio e lo aveva trovato distrutto proprio perché la mafia non voleva che aggregasse i ragazzi, e sapete quanto il calcio avrebbe potuto attrarre i ragazzetti. È questa la motivazione della sua morte: la sua azione pastorale evangelica; ma secondo qualcuno – e anche secondo me – c’era anche dell’altro.
Il Centro Padre Nostro era situato in un crocevia strategico, vie del quartiere percorse da latitanti in un momento in cui lo Stato incominciava a esercitare pressione per i fatti gravissimi successi. Era un punto in cui questo parroco poteva anche ospitare e mescolare fra i giovani agenti di polizia che magari sembrava che frequentassero il Centro e invece osservavano i movimenti del quartiere. Questo sospetto era un ulteriore pericolo per la mafia, anche se non era assolutamente vero, come hanno accertato le indagini.
Il primo miracolo
Ricostruire la verità. Uno dei miracoli di don Pino è stato quello di far ricostruire la verità del suo assassinio perché è riuscito a far convertire, a mettere in una crisi religiosa i suoi assassini. Ben due hanno fatto questo percorso: uno in maniera rapida e un altro pochi anni fa. Vi ho detto prima delle cause: la sua missione pastorale evangelica costituiva un pericolo per la mafia e proprio per questo è stato ucciso.
Ma dalle parole dei collaboratori di giustizia abbiamo saputo di recente che la mafia aveva dato l’ordine di ucciderlo, però non se ne voleva prendere la paternità, perché capiva che la cosa avrebbe provocato delle reazioni nei suoi confronti. Uno degli assassini – me lo riferì personalmente nel 2008 quando decise di collaborare – mi disse che Giuseppe Graviano gli aveva ordinato che doveva sembrare un incidente stradale, dovevano investirlo mentre attraversava la strada.
Giravano con le macchine, ma non capitava mai questa condizione. Allora decisero di simulare qualcos’altro, perché l’omicidio non doveva essere attribuibile alla mafia. Simulano una rapina. Lo accostano mentre si stava ritirando a casa: era stato con alcuni amici a festeggiare il proprio compleanno. Anche questo era un messaggio – il potere dei simboli, dei segni –: doveva essere il giorno del suo compleanno. Lo avvicinano mentre sta per aprire il portone di casa intorno alle 21.
Quando uno gli sottrae il borsello che teneva sotto il braccio, don Pino si gira e con un enigmatico sorriso, come lo descrive il killer, don Pino dirà: «Me lo aspettavo». Anche questa è una frase enigmatica: si aspettava di essere ucciso, l’aveva messo nel conto, aveva capito che stava colpendo la mafia nel suo potere. Subito un altro gli spara un colpo, un solo colpo alla nuca e stramazza a terra. La reazione della gente di Brancaccio è eccezionale. Il posto dove è stato ucciso diventa quasi un luogo di pellegrinaggio.
C’è una forma di sommossa civile e si condanna la mafia, perché in un quartiere come Brancaccio si sa benissimo che, se avviene qualcosa del genere, la mafia qualcosa deve pur sapere e quindi i Graviano – e questo particolare è venuto fuori dopo anni – cercano di distogliere da sé questa riprovazione da parte della popolazione di Brancaccio. Incaricano il pentito – possiamo dire il nome: Spatuzza, quello che ha riaperto le indagini anche sull’omicidio di Borsellino – a simulare una sorta di giustizialismo da parte della stessa mafia.
Dovevano prendere un ladro, uno di quelli che di solito non obbedivano alle loro regole: doveva essere punito per essere di esempio a tutti gli altri. Nel contempo dovevano incendiarne il cadavere sul posto dove era stato ucciso padre Puglisi, una sorta di giustizia della mafia che uccideva il rapinatore che aveva osato aggredire padre Puglisi, così invertendo completamente la realtà.
Il ragazzo viene ucciso, ma non riescono a trasportare il cadavere verso quel luogo e compiere il progetto, perché la gente non cessava, anche la notte, di stare lì e di fare la veglia funebre sul marciapiede; quel cadavere verrà lasciato in una via adiacente senza riuscire a portare a compimento la dissimulazione che avrebbe fatto della mafia la giustiziera al posto dello Stato.
Poi avviene il miracolo. Due assassini – che avevano commesso centinaia di omicidi, il primo 47, l’altro aveva collaborato alle stragi di Borsellino, di Firenze, di Roma, di Milano, doveva fare la strage dell’Olimpico in cui dovevano saltare in aria decine di carabinieri: cosa non avvenuta perché si inceppa il meccanismo dell’autobomba – hanno una crisi religiosa e raccontano di quel sorriso, di quella beatitudine che don Puglisi aveva nel momento in cui aveva capito tutto.
Aveva detto: «Me l’aspettavo», e – con quel sorriso da beato come è stato oggi riconosciuto – accetta la sua sorte. Questo è il grande miracolo ed è stato ricordato nel giorno della sua beatificazione dal cardinale Romeo con le parole di Gesù sul chicco di grano. Il chicco di grano se cade a terra rimane solo, ma se muore e viene seppellito dalla terra darà tanti frutti. Io penso che padre Puglisi morendo è rinato.
Attraverso la sua memoria possiamo far diffondere nei giovani il suo esempio, la sua vita, la sua parola proprio per costruire tutti insieme un mondo migliore pieno di quei valori e principi di cui era interprete don Pino Puglisi.
(Da: Vita Pastorale)
Una teoria che condivido da tempo...i miracoli di Padre Puglisi non vanno ricercati nelle guarigioni miracolose ma nella conversione degli animi, che è poi il motivo per cui l'hanno ucciso.....
RispondiEliminaMaria Mattina
Ho avuto l'onore di conoscere personalmente il Beato Padre Pino Puglisi,
RispondiElimina(3P, come amichevolmente lo chiamavamo). Lo amavamo tutti, perche'era davvero un "pezzo di Pane".Era tutto dedicato alla Sua Missione, la quale era la cosa piu' importante della Sua vita, (e x la quale ha dato letteralmente la vita.)Lui era perfettamente cosciente che la mafia lo avrebbe ucciso. Qualche giorno prima che cio' avvenisse, mio figlio,Roberto,lo incontra strada,parlano, gli chiede come sta, lui risponde:
"Sto bene, fino a quannu un m'ammazzanu"....)
Conosceva gia' la sua fine, pero' ando' avanti lo stesso con la fede nella Chiesa,e nella sua Missione.
Grazie per questo, Grande Padre Puglisi,x la Tua testimonianza.
T.V.T.B. PREGA X NOI.🙏🌹❤