Il Beato Pino Puglisi sia inserito tra i patroni di Palermo. Dopo la beatificazione, da parte della Chiesa sarebbe un ulteriore passo avanti, un gesto simbolico per consegnare alle generazioni future un esempio concreto di santità. E poi pensate un po': per essere affiliati alle cosche si brucia l'immagine del patrono del luogo. Ce la farebbero i mafiosi a mantenere questo rito sacrilego con in mano una immagine di padre Puglisi sorridente? Con questo auspicio e questa provocazione si conclude questo straordinario e documentato saggio del professore Nicola Filippone, preside dell'istituto Don Bosco di Palermo e autore di numerose ricerche su padre Puglisi. Un contributo in esclusiva per il blog che state leggendo e per il quale lo ringraziamo di cuore.
Il nostro blog e gli amici di padre Puglisi fanno proprio l'auspicio: la Chiesa dia un altro segnale e includa il caro 3P tra i patroni di Palermo. Chi vuole dare la sua adesione a questo appello può lasciare un commento qui sul blog o attraverso la pagina facebook "Beato Giuseppe Puglisi".
(Francesco Deliziosi)
di Nicola Filippone
preside dell'istituto Don Bosco - Palermo
1. Annuncio del Vangelo e promozione umana
Don Pino
Puglisi, parroco palermitano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993,
appartiene al numero dei grandi testimoni della carità che, nella seconda metà
del XX secolo, hanno dato una straordinaria testimonianza d’amore pagando con
la vita la loro fedeltà a Cristo ed al Vangelo.[1]
L'ordinazione di Pino Puglisi da parte del cardinale Ernesto Ruffini |
Ordinato
presbitero il 2 luglio 1960 dal cardinale Ernesto Ruffini, dopo diverse
esperienze pastorali in alcuni quartieri palermitani e a Godrano, piccolo paese
della provincia, il 29 settembre 1990 fu nominato dal cardinale Salvatore
Pappalardo parroco a Brancaccio, il quartiere dove il 15 settembre 1937 don
Pino era nato. Dopo il secondo conflitto mondiale Brancaccio era divenuta
un’area industriale in cui ben presto la criminalità organizzata si era
insediata per imporre il suo dominio, favorita da un certo degrado economico
cui ben presto si aggiunsero anche quello culturale e morale.
Per conoscere
bene la realtà del territorio il parroco Puglisi effettua subito un’indagine
sociologica, con la collaborazione di alcuni studenti universitari, dalla quale
risulta che “…L’ambiente è disomogeneo e la presenza della mafia è soltanto uno
dei problemi. Certo non il minore, ma per molti la vera preoccupazione è
riuscire a mangiare ogni giorno. Circa 150 famiglie arrivate dal centro storico
si trovano concentrate in due enormi palazzi […] Stavano in case ormai
inagibili, che crollavano a pezzi. Il Comune le ha fatte sgombrare e ha
requisito questi due nuovi edifici. Le famiglie ora vi abitano ma si sono
portate dietro solo la propria povertà. È una terra di nessuno. I bambini
vivono in strada. E dalla strada imparano solo la lezione della delinquenza
[...] Sulla via Brancaccio, tra due passaggi a livello, vi è una zona chiamata
Stati Uniti. Qui la povertà è anche culturale: molti non hanno conseguito
neanche la licenza elementare. Come parrocchia abbiamo cercato di fare dei
corsi per questi analfabeti, ma certo il nostro sforzo non è sufficiente […]
C’è inoltre povertà anche dal punto di vista morale. In molte famiglie non ci
sono principi etici stabili, ma tutto viene valutato sul momento, in base alla
necessità […] L’evasione scolastica è anche dovuta al fatto che Brancaccio è
l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media. Chi vuole
studiare deve sobbarcarsi lunghi spostamenti. Evidentemente questo fa comodo a
chi vuole che l’ignoranza continui. C’è la scuola elementare, ma non c’è
neanche un asilo nido […] In sostanza si fa prima a dire quello che c’è…tutto
il resto manca”.[2] A due anni dal suo
insediamento don Pino sottopone ai suoi parrocchiani anche un questionario da
cui emerge che al 90,25% degli intervistati non piace niente del quartiere, che
il 68,5% ritiene che esso sia sprovvisto di tutti i servizi, il 10,5% dei
servizi ricreativi, l’8% dei servizi sociali, il 7,5% di quelli sanitari.
Questi
risultati maturano nel sacerdote palermitano la convinzione di dover vivere il
proprio ministero coniugando l’annuncio del Vangelo con la promozione umana. A
tale scopo egli fonda il centro “Padre nostro”, che viene inaugurato il 29
gennaio 1993, col quale intende venire incontro alle esigenze della gente del
quartiere, attraverso l’accoglienza e l’offerta di alcuni servizi di cui a
Brancaccio non v’è traccia. L’accoglienza è rivolta a quanti sono in serie
difficoltà (familiari di carcerati, ragazze madri, giovani vittime di abusi di
ogni genere, ragazzi di strada) prima di essere adescati dalla criminalità. Tra
i servizi spicca invece l’istruzione, che Puglisi vorrebbe concretizzare
creando una scuola media nei locali di Via Hazon, sequestrati dopo il
rinvenimento in essi di un arsenale della mafia.
Fa riflettere l’idea di dedicare il centro non ad un santo o ad un benefattore, ma alla preghiera del Padre nostro. È probabile che la scelta sia scaturita dal desiderio di rilanciare la figura del padre in un contesto in cui essa era seriamente compromessa dai vissuti di molti parrocchiani. Chiamare Dio padre significava, di conseguenza, ricordare la fratellanza fra i battezzati e quindi proporre uno stile di vita nuovo, basato sull’amore e sul perdono piuttosto che sulla violenza e sulla faida. C’è anche un’ulteriore possibile spiegazione dietro la scelta del Padre nostro ed è la richiesta del “pane quotidiano” che in essa si presenta a Dio. Puglisi intendeva sottolineare da un lato che il pane è un diritto sacrosanto e non può, pertanto, essere chiesto in elemosina in cambio della propria dignità.
“La parità, spiega egli stesso, significa uguaglianza di dignità, qualunque sia il ruolo che ciascuno abbia. Il ruolo in sé può essere più o meno importante per la vitalità di una comunità, ma la persona ha la stessa importanza dell’altra, la stessa dignità che ha l’altra davanti a Dio. Dio non fa distinzione di persone […]”. D’altro canto c’è un’accezione più profonda, teologica del pane che don Pino così spiega: “Ma pane anche nel senso di esigenza di una vita intellettuale, quindi il pane della Parola; ‘dacci il Pane della Parola’ […] Quindi, chiediamo a Dio che non ci venga mai meno la verità, l’amore degli altri, e l’amore nostro verso gli altri […] È per questo che viene detto: dacci oggi il pane, quello di oggi, non quello di domani o quello di dopodomani, daccelo oggi, e questo ci basta, perché sappiamo che ogni ‘oggi’ tu sei presente e quindi ci darai quello che è necessario, se noi siamo in comunione con Te, non verrà a mancarci ciò che è necessario per la nostra vita”.[3] Il pane che il parroco invita i fedeli a chiedere è dunque Gesù stesso, perché la povertà più grave di cui è affetta Brancaccio è quella di Cristo Signore. La rinascita del quartiere non può che iniziare dal recupero del Vangelo, che in quel luogo è quanto mai “lieto annunzio” di speranza e di amore.
Ha scritto M. Naro: “Preferisco intendere i due termini come sinonimi, forzando la grammatica con cui è formulato il nostro titolo e trasformando la ‘e’ congiuntiva in una ‘è’ verbale: Pane è Vangelo. Non sembri una scelta irrispettosa dello spessore e della forza storica che la vicenda di don Puglisi ha avuto; non sembri un tentativo di ‘normalizzare’ la sua figura di lottatore, riducendo ciò che nella sua vita ha significato ricerca e difesa del pane entro una cornice spiritualistica, quella appunto del vangelo soltanto letto o peggio soltanto predicato […] voglio piuttosto dire che il pane – quando è pulito, quando è sudato, quando è onesto, quando è rispettato, quando è condiviso – è vangelo”.[4]
Il degrado degli scantinati di via Hazon in una foto degli anni Novanta |
Fa riflettere l’idea di dedicare il centro non ad un santo o ad un benefattore, ma alla preghiera del Padre nostro. È probabile che la scelta sia scaturita dal desiderio di rilanciare la figura del padre in un contesto in cui essa era seriamente compromessa dai vissuti di molti parrocchiani. Chiamare Dio padre significava, di conseguenza, ricordare la fratellanza fra i battezzati e quindi proporre uno stile di vita nuovo, basato sull’amore e sul perdono piuttosto che sulla violenza e sulla faida. C’è anche un’ulteriore possibile spiegazione dietro la scelta del Padre nostro ed è la richiesta del “pane quotidiano” che in essa si presenta a Dio. Puglisi intendeva sottolineare da un lato che il pane è un diritto sacrosanto e non può, pertanto, essere chiesto in elemosina in cambio della propria dignità.
“La parità, spiega egli stesso, significa uguaglianza di dignità, qualunque sia il ruolo che ciascuno abbia. Il ruolo in sé può essere più o meno importante per la vitalità di una comunità, ma la persona ha la stessa importanza dell’altra, la stessa dignità che ha l’altra davanti a Dio. Dio non fa distinzione di persone […]”. D’altro canto c’è un’accezione più profonda, teologica del pane che don Pino così spiega: “Ma pane anche nel senso di esigenza di una vita intellettuale, quindi il pane della Parola; ‘dacci il Pane della Parola’ […] Quindi, chiediamo a Dio che non ci venga mai meno la verità, l’amore degli altri, e l’amore nostro verso gli altri […] È per questo che viene detto: dacci oggi il pane, quello di oggi, non quello di domani o quello di dopodomani, daccelo oggi, e questo ci basta, perché sappiamo che ogni ‘oggi’ tu sei presente e quindi ci darai quello che è necessario, se noi siamo in comunione con Te, non verrà a mancarci ciò che è necessario per la nostra vita”.[3] Il pane che il parroco invita i fedeli a chiedere è dunque Gesù stesso, perché la povertà più grave di cui è affetta Brancaccio è quella di Cristo Signore. La rinascita del quartiere non può che iniziare dal recupero del Vangelo, che in quel luogo è quanto mai “lieto annunzio” di speranza e di amore.
Ha scritto M. Naro: “Preferisco intendere i due termini come sinonimi, forzando la grammatica con cui è formulato il nostro titolo e trasformando la ‘e’ congiuntiva in una ‘è’ verbale: Pane è Vangelo. Non sembri una scelta irrispettosa dello spessore e della forza storica che la vicenda di don Puglisi ha avuto; non sembri un tentativo di ‘normalizzare’ la sua figura di lottatore, riducendo ciò che nella sua vita ha significato ricerca e difesa del pane entro una cornice spiritualistica, quella appunto del vangelo soltanto letto o peggio soltanto predicato […] voglio piuttosto dire che il pane – quando è pulito, quando è sudato, quando è onesto, quando è rispettato, quando è condiviso – è vangelo”.[4]
Il Vangelo si rivelerà ben
presto l’arma più efficace contro la mafia, come risulta chiaramente dalle
deposizioni degli assassini di padre Puglisi e dalla sentenza che li ha
giudicati: “L’aggregazione sociale voluta da don Pino Puglisi, la pratica dei
valori cristiani tradizionalmente opposti alla logica della violenza e del
terrore di Cosa Nostra, quindi, rappresentava un consistente pericolo per
l’organizzazione criminale, che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel
luogo ove più forte era il suo radicarsi per consolidata permanenza”.[5]
2. Chiesa e mafia sono incompatibili
Col suo sacrificio don
Puglisi ha definitivamente chiarito l’assoluta incompatibilità della Comunità
ecclesiale con la criminalità organizzata. Fino ad allora alcuni uomini di
Chiesa erano stati indotti a sottovalutare il fenomeno mafioso, per circostanze
storiche che, a volte, possono convincere della loro buona fede. Il card.
Ruffini, ad esempio, mantovano, giunto a Palermo nel 1946, era a tal punto
intento a fronteggiare il comunismo, in linea col pontificato di Pio XII, da
non accorgersi del male covato dalla società siciliana che, di lì a poco,
sarebbe esploso in tutta la sua ferocia e spietatezza. L’arcivescovo arrivò
addirittura ad esprimere pubblicamente un certo scetticismo sull’esistenza in
Sicilia di una tale organizzazione malavitosa. Purtuttavia l’episcopato isolano
aveva scomunicato i mafiosi sin dal 1944 e tale sanzione sarà applicata altre
due volte nel 1952 e nel 1982.[6] Con
l’arrivo a Palermo del card. Pappalardo, nel 1970, dopo il breve governo di
Francesco Carpino, che era succeduto a Ruffini, si verifica una svolta
fondamentale nella storia ecclesiale siciliana. Ai funerali del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa, il 5 settembre 1982, l’arcivescovo denunciò
coraggiosamente le inadempienze dello Stato nei confronti del prefetto
assassinato, al quale erano stati promessi dei poteri, mai conferiti. Tale
uscita attribuì al presule la definizione di “vescovo antimafia”, che
Pappalardo respinse sempre con fermezza, sostenendo che la Chiesa , per sua natura, non
è mai contro qualcuno, ma, annunciando il Vangelo, dimostra di essere a favore
della vita, e di opporre la cultura dell’amore alla forza bieca della violenza:
“Contro questa mentalità mafiosa e contro la violenza della mafia, noi vescovi
di Sicilia intendiamo opporre, ancora una volta e più decisamente, la forza
disarmata ma irriducibile del Vangelo, una forza che è per se stessa rivolta
alla persuasione, alla promozione e alla conversione delle persone, ma è nello
stesso tempo intransigente nel non autorizzare sconti o ingenue transazioni per
ciò che concerne il male, chiunque sia a commetterlo o a trarne profitto”.[7]
Padre Puglisi a Brancaccio col cardinale Salvatore Pappalardo. A sinistra Gregorio Porcaro, all'epoca viceparroco |
Questa linea pastorale trova in Pino Puglisi la sua espressione più coerente e tragica, divenendo un esempio capace di scuotere non solo le coscienze della gente comune e riportando il sacerdozio cattolico alla primigenia configurazione, basata anche sull’offerta della vita e sul mescolamento del proprio sangue con quello di Gesù in croce. Il parroco di Brancaccio ha ridestato un certo clero siciliano, a volte assopito o distratto dinanzi alle prevaricazioni o alle ingiustizie compiute talora sotto i propri occhi. Sconcertante il contributo di A. Cavadi, che riporta un suo colloquio avuto con la sorella di un sacerdote, la quale “esprimeva il suo stupore dal momento che il fratello – dopo venticinque anni di attività pastorale – non era mai stato in alcun modo minacciato o disturbato. La guardavo stupito a mia volta perché non si rendeva conto, nella sua ingenuità, delle sue affermazioni. Come fare a non capire che la mafia ‘deve’ sopprimere le ‘anomalie’ come don Puglisi solo perché ci sono dieci, cento preti ‘normali’ come suo fratello?”.[8]
La presunzione di alcuni
mafiosi di potere conciliare i loro delitti con il cristianesimo è passata
spesso inosservata e in qualche caso è stata anche avallata da uomini di
Chiesa. Mafiosi scelti come padrini o testimoni di nozze, uomini d’onore in
prima fila nelle processioni o tra i benefattori di enti ecclesiastici o
caritativi. La vicenda di un religioso che si recava nel covo di un latitante a
celebrarvi l’eucaristia fu al centro di uno studio della Facoltà teologica “S.
Giovanni” di Palermo, su richiesta del card. Salvatore Di Giorgi. Nelle
conclusioni si affermava il diritto-dovere del sacerdote di riportare all’ovile
la pecorella smarrita, ma si sottolineava anche la necessità di subordinare
tale tentativo a dei concreti segnali di cambiamento da parte del peccatore e
di non procedere ad oltranza, ma di limitare questi sforzi per evitare che una
legittima azione pastorale, suscitando scandalo, diventasse una
controtestimonianza.[9]
Il cardinale Pappalardo con padre Puglisi e i partecipanti a un ritiro spirituale. La prima a sinistra è l'assistente sociale missionaria Agostina Aiello |
Pappalardo ha contribuito a
fugare per sempre il sospetto di ambiguità della Chiesa nei confronti di Cosa
nostra e, dopo l’assassinio di Puglisi, il suo magistero ha avuto una figura
autentica di sacerdote da additare ad ogni presbitero: “Puglisi rappresenta
un’indicazione per tutti noi; il modello che ne deriva per il clero di Sicilia
e per ogni vero cristiano è la sfida che lanciamo a chiunque gli competa! Se
questa sfida dovesse bastare a giustificare per la pastorale delle nostre
Chiese la qualifica di pastorale di frontiera, noi l’accettiamo, ma solo nel
senso della duplice forza del Vangelo appena rivendicato e con l’invincibile
speranza di una redenzione sempre possibile per tutti che da esso ci deriva”.[10]
3. Una concezione dilatata del martirio
C’è una questione che ha
animato un interessante dibattito tra i teologi e che ha avuto l’abbrivio da un
celebre intervento di Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento nel
1993, pochi mesi prima dell’assassinio di Brancaccio.
Il Santo Padre definì allora alcune vittime della mafia “martiri della giustizia”, sostenendo una concezione dilatata del martirio. Tale espressione è già presente in un articolo di K. Rahner, pubblicato nel1983 in Concilium,
dal titolo Dimensioni del martirio. Per
una dilatazione del concetto classico.[11]
Secondo il gesuita da quando è invalso il principio della libertà religiosa, in
occidente è estremamente raro che si verifichi un caso di martirio in odium fidei, pertanto bisogna
estendere tale riconoscimento anche a chi muore lottando per le proprie
convinzioni cristiane o a chi dà questa suprema testimonianza sebbene non gli
venga richiesta. Questo punto di vista coincide in parte con quello di L. Boff,
il quale parla anche dei “martiri del Regno di Dio”, includendo tra questi
ultimi quanti muoiono “per la fedeltà alla verità, alla giustizia e agli
imperativi della pace”.[12] È
una tesi ispirata al “cristianesimo anonimo” dello stesso Rahner, che considera
martiri anche coloro che subiscono silenziosamente e senza atti di particolare
eroismo “il martirio della paura e della debolezza, del venire uccisi prima
della morte, del venire cancellati e alienati mediante la diabolica
raffinatezza dell’assassinio del corpo”.[13]
Di diverso avviso è il teologo H. U. von Balthasar che, temendo il rischio di un appiattimento del cristianesimo all’umanesimo, rilancia la cosiddetta “teologia della croce”, che tende ad una completa identificazione del martire col Figlio di Dio. Egli non “muore per una idea, sia pure la più elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi (tutto ciò può essere presente e giocare un suo ruolo), egli muore con qualcuno che è già morto precedentemente per lui”. [14]
Padre Puglisi con Giovanni Paolo II durante una visita a Castel Gandolfo nel 1985 |
Il Santo Padre definì allora alcune vittime della mafia “martiri della giustizia”, sostenendo una concezione dilatata del martirio. Tale espressione è già presente in un articolo di K. Rahner, pubblicato nel
Di diverso avviso è il teologo H. U. von Balthasar che, temendo il rischio di un appiattimento del cristianesimo all’umanesimo, rilancia la cosiddetta “teologia della croce”, che tende ad una completa identificazione del martire col Figlio di Dio. Egli non “muore per una idea, sia pure la più elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi (tutto ciò può essere presente e giocare un suo ruolo), egli muore con qualcuno che è già morto precedentemente per lui”. [14]
Nel caso delle vittime della
mafia, allora, non si può procedere ad una indiscriminata collocazione di
ognuna di esse nel novero dei martiri, sebbene tutti abbiano lasciato una
luminosa testimonianza di coerenza, di attaccamento alla loro terra o al loro
lavoro, di fedeltà alle istituzioni servite fino in fondo. Possono configurarsi
come martiri soltanto coloro che hanno raggiunto una unione speciale con Dio,
poiché quella del martire “non è semplicemente morte della libera libertà
dell’uomo, ma svelamento della morte della fede. E pertanto la morte del
martire è la morte del cristiano per eccellenza”.[15]
4. Un martire tra i patroni della città
17 settembre 1993: un'immagine dei funerali di padre Puglisi, ai quali parteciparono circa 8 mila persone |
25 maggio 2013: una foto della beatificazione di padre Puglisi, alla quale parteciparono circa 80 mila persone |
La beatificazione di don Pino Puglisi ci dà lo spunto per riflettere sulla sua morte e sulle ragioni che hanno indotto la Chiesa a considerarla un martirio.
Innanzitutto
la confortante presenza del Dio incarnato, che sostiene don Pino lungo tutta la
sua missione e che il parroco di Brancaccio avverte con maggiore intensità nei
momenti più drammatici. “Se Dio è con noi chi sarà contro di noi?” è la
citazione che spesso ricorre nelle sue omelie e dalla quale verosimilmente
traeva il coraggio di andare avanti anche dinanzi ai frequenti atti
intimidatori subiti da lui e dai suoi più stretti collaboratori. “Il massimo
che possono farmi, diceva a suor Carolina, è ammazzarmi. E allora?”.
W. Rodorf parla di un “paradossale conforto che il martire prova nelle pene: egli si sente come rinfrescato o diventa insensibile, come se fosse fuori del corpo”.[16] R. Jacob riprende questo tema spiegando che tra il martire e il Crocifisso si crea un’unione profonda che trascende quella che chiunque altro, sulla terra, è in grado di instaurare con Dio: “Essa è di una tale intimità che stabilisce una presenza particolare del Cristo nell’anima del martire e gli dona ugualmente la forza di sopportare tutte le avversità. Gesù Cristo vive e opera con il martire e nel martire”.[17]
W. Rodorf parla di un “paradossale conforto che il martire prova nelle pene: egli si sente come rinfrescato o diventa insensibile, come se fosse fuori del corpo”.[16] R. Jacob riprende questo tema spiegando che tra il martire e il Crocifisso si crea un’unione profonda che trascende quella che chiunque altro, sulla terra, è in grado di instaurare con Dio: “Essa è di una tale intimità che stabilisce una presenza particolare del Cristo nell’anima del martire e gli dona ugualmente la forza di sopportare tutte le avversità. Gesù Cristo vive e opera con il martire e nel martire”.[17]
La seconda ragione riguarda
il rapporto interiore che padre Puglisi ha con la sofferenza, che dà senso
all’esistenza dell’uomo. Ovviamente non si tratta di pessimismo romantico,
quella cui allude don Pino è la croce che il Signore invita a portare per
guadagnare la vita. In un campo scuola dal titolo “A che serve vivere” egli
condivide con i suoi giovani questa riflessione: “può sembrare una cosa che
atterrisce prendere la croce per essere discepolo di Gesù ma se noi vogliamo
crescere, questa sarà la logica della gioia, se noi vogliamo restare immaturi,
allora rifiuteremo la logica della croce, la logica del chicco di frumento”.[18] La
morte, inoltre, quando conclude una vita offerta per amore, diviene
l’espressione più alta e significativa della testimonianza: “dalla
testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore
alla testimonianza”.[19] Per
questo Puglisi, pur essendo consapevole di ciò che l’attendeva, non volle mai
una scorta, laddove altri sacerdoti, a Palermo, in quegli anni venivano
inseriti in piani di protezione della pubblica sicurezza. Prima che i suoi
killer gli sparassero egli, invece, accennò loro un sorriso e disse: “Me
l’aspettavo”.
L’ultima motivazione concerne
gli effetti che la sua morte ha avuto, innanzitutto sui carnefici e poi sulla
società e sulla Chiesa siciliane. L’esecutore materiale del delitto fu
Salvatore Grigoli, il quale, oltre a collaborare con la giustizia, mostrò
inequivocabili segni di pentimento interiore da lui stesso ammessi ed
attribuiti proprio alla serenità con cui la sua vittima affrontò la morte:
“allorché il padre neanche si era accorto di me…e il padre, fu una cosa questa
che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi
viene in mente questa visione del padre che sorrise…”. Evidentemente nessuno
degli altri numerosi uomini da lui uccisi aveva reagito in questa maniera!
La vittoria del cristianesimo
passa sempre per il sangue dei martiri, così Gesù ha sconfitto la morte ed il
peccato, è crollato l’Impero Romano, è tramontata la Germania nazista, si è
sgretolata l’Unione Sovietica, si potrà un giorno distruggere la mafia.
È la forza rivelatrice dell’amore, destinata ad imporsi storicamente su quella della violenza e dell’odio, che fa di ogni martire – e di don Pino in particolare – un martire della carità “seppure esplicitamente motivata dalla fede”.[20]
La messa per il ventennale della morte di padre Puglisi, celebrata dal card. Paolo Romeo il 15 settembre 2013 in piazzale Anita Garibaldi, il luogo dell'omicidio |
È la forza rivelatrice dell’amore, destinata ad imporsi storicamente su quella della violenza e dell’odio, che fa di ogni martire – e di don Pino in particolare – un martire della carità “seppure esplicitamente motivata dalla fede”.[20]
La morte di padre Puglisi
merita allora una collocazione più ampia di quella di un mero delitto di mafia,
per avere accese le speranze in una vittoria della giustizia e della carità
sulla delinquenza, in un riordino morale della società, in un ricupero del
senso cristiano della vita, in una nuova evangelizzazione della nostra terra.
Quest’aspettativa rifulge dalle parole con cui il cardinale Pappalardo ricorda
il parroco ucciso, nell’omelia del 15 gennaio 1994, durante un’ordinazione
sacerdotale: “Forse in questo momento della nostra storia, con gli angosciosi
problemi che si pongono nella società civile come in quella ecclesiale (il
degrado morale, lo sfrenato consumismo, la corruzione, la mafia con le sue
sfrontate sopraffazioni e violenze, la secolarizzazione della società, la
pratica scristianizzazione di tanti ambienti), abbiamo bisogno di sapere e
vedere con quale metodo, con quale azione pastorale, con quali mezzi sia da
affrontare tale situazione. La figura di Don Puglisi, umile, modesta, priva di
ogni segno di esteriore sfoggio, ma carica di tutte le attribuzioni del buon
Pastore, emerge per segnare quale possa essere oggi, nella nostra Palermo, la
via per sconfiggere, attaccando alla radice la mala pianta che, sotto varie
forme, invade e corrode il tessuto civile ed ecclesiale delle nostre
popolazioni. La via di Puglisi è stata quella della evangelizzazione […] Da
quest’azione, che è propria ed insopprimibile della Chiesa, cioè di tutta la
comunità cristiana, scaturisce inevitabilmente la promozione di ogni progresso,
la liberazione di tanti opprimenti mali, mafia compresa”. [21]
Un'ultima
considerazione, che è anche un auspicio: la beatificazione di don Pino
rappresenta una tappa importantissima del processo di rinascita morale della
nostra terra e della vittoria completa sulla mafia. Ritengo però che manchi
ancora qualcosa: l’inserimento di 3P tra i patroni di Palermo e della Sicilia. Questo
ulteriore passaggio suggellerebbe in maniera definitiva l’estraneità dei
mafiosi dalla fede cristiana, anche perché risulta dalle dichiarazioni dei
collaboranti che la “punciuta”, ossia il rito con cui si entra in Cosa nostra, avviene
tenendo in mano l’immagine del santo protettore della città, mi chiedo come
potrebbe un aspirante uomo d’onore, invocare l’aiuto di chi è diventato santo
per avere combattuto la mafia!
[1] Il
suo nome si accosta infatti a quello di padre Massimiliano Maria Kolbe, ucciso
ad Auschwitz durante la seconda guerra mondiale o a quello di mons. Oscar
Romero, assassinato in Sudamerica dalla guerriglia mentre celebrava l’eucaristia.
[2] Cfr: Archivio Puglisi
custodito presso il Centro Diocesano Vocazioni di Palermo.
[3] G. PUGLISI, Campi estivi vocazionali, presso Archivio Puglisi …
[4] M.
NARO, Pane e Vangelo: mistero e ministero
nel martirio di don Pino Puglisi, in M.
Naro, Teologi in ginocchio. Figure
di spirituali nella Sicilia contemporanea, Provincia Regionale di Palermo –
Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Monreale, Palermo 2006,, p. 272
[5] Sentenza Corte d’Appello di Palermo nei confronti di
Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Grigoli Salvatore del 13 febbraio 2001.
[6]
Lettera collettiva dell’Episcopato dell’1 dicembre 1944; decreto n. 171 del
Concilio Plenario Siculo del 1952; Conferenza Episcopale Siciliana dell’ottobre
1982.
[7] S.
PAPPALARDO, Messaggio Annuale del card.
S. Pappalardo in occasione dell’Avvento, Palermo dicembre 1994.
[8] A. Cavadi, Psicologia e sociologia del martirio: nuove piste per una riflessione
critica in M. Naro (Ed), Martirio e vita cristiana, Salvatore
Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1997, 250.
[9] Cfr. C. NARO, La speranza è paziente.
Interventi e interviste (2003-2006), Salvatore Sciascia Editore,
Caltanissetta-Roma 2007, pp. 272-273. Rispondendo a Vittoria Prisciandaro che
gli chiede quale debba essere l’atteggiamento di un prete rispetto alla
richiesta di assistenza spirituale di un uomo d’onore, mons. Naro, richiamando
il parere espresso dalla Facoltà da lui presieduta, risponde: “Se il sacerdote
viene richiesto dei sacramenti in
articulo mortis (se cioè il latitante sta per morire), il sacerdote deve
andare, anche a costo di incorrere nei rigori delle norme civili. Se, invece,
non c’è questo pericolo della vita, il sacerdote può andare, una volta, due
volte, per sostenere ed accogliere la volontà di conversione del latitante che non
può non comportare un’effettiva rottura con la cosca mafiosa ed un serio
impegno di riparazione del male compiuto. Ma se il sacerdote dovesse registrare
che non c’è una tale volontà e che, anzi, c’è un tentativo di strumentalizzare,
è evidente che conviene che egli si sottragga a tale tentativo. Mi sembra che
quel parere resti valido perché prudente ed equilibrato”.
[10] S. PAPPALARDO, Messaggio annuale dell’arcivescovo in occasione dell’Avvento, cit..
[11] K.
RAHNER, Conclium (1983) 18. Alla p. 28 si legge: “Anche quando è subita nella
lotta per le proprie convinzioni cristiane, la morte suona come testimonianza
della fede che poggia su questa risolutezza incondizionata che integra, per
grazia di Dio, l’intera esistenza nella morte e che si esprime nella più
profonda impotenza, interiore ed esteriore, che l’uomo pazientemente sopporta.
Questo vale anche per una morte nel corso della lotta, perché il combattente,
proprio come il martire tradizionale, soffre, nell’esperienza del suo
fallimento esteriore, la potenza del male e la propria impotenza”.
[12] L. Boff,
Martirio: tentativo di una riflessione
sistematica, in “Concilium” (1983)18, 36-37.
[13] K. Rahner, Sulla
teologia della morte. Con una digressione sul martirio, Brescia 1965, 106.
[14] H. U. von Balthasar, Martirio e missione, in Nuovi punti fermi, Milano 1980, 259.
[15] K. Rahner, Sulla
teologia della morte. Con una digressione sul martirio, cit., 92.
[16] W. Rodorf,
Martirio e testimonianza, in “Rivista
di storia e letteratura religiosa” 8 (1972), 252.
[17] R. Jacob, Le martyre, epanouissement du
sacerdote des chrétiens dans la littérature patristique jusq’en 258, in “Mélanges de science religieuse” 24 (1967), 83.
[18] G. Puglisi, Che senso ha la mia vita? Itinerario vocazionale, 28. Trascrizione
da registrazione audio, conservata presso Archivio Puglisi del Centro Diocesano
Vocazioni.
[19] G.
PUGLISI, Testimoni della speranza,
relazione tenuta al convegno nazionale del movimento “Presenza del Vangelo”,
Trento 22-28 agosto 1991.
[20] C.
NARO, La speranza è cristiana…, cit.
p. 48.
[21] S. Pappalardo, Omelia durante la Celebrazione
Eucaristica per l’ordinazione sacerdotale, in “Rivista
della Chiesa Palermitana”, (1994)4.
Piena condivisione dei motivi e delle finalità di questo appello
RispondiEliminaSanto patrono di Palermo subito!!
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