giovedì 5 marzo 2015

DON MASSIMO NARO: DOPO PUGLISI ALLARGARE IL SENSO DEL MARTIRIO ALLE VITTIME DI MAFIA MORTE PER LA GIUSTIZIA

Rosario Livatino

Dopo la beatificazione di padre Pino Puglisi, che è stata di portata storica, quali prospettive teologiche si pongono sul concetto di martirio? Si potrà sviluppare il tema dei "martiri della giustizia" lanciato da Giovanni Paolo II, ampliando la platea dei martiri anche a coloro che sono stati uccisi non solo in odio alla loro fede? Diverse figure di credenti laici si avanzano alla memoria in questa prospettiva e la prima è quella del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia, per il quale è in corso una istruttoria nella diocesi di Agrigento. Su questi temi il teologo don Massimo Naro, acuto studioso del "caso Puglisi" e delle sue implicazioni, ha scritto un saggio che ora ci ha inviato per la pubblicazione sul blog che state leggendo. Lo ringraziamo insieme con una preghiera affinché il cammino della Chiesa possa elevarsi attraverso una maturazione ulteriore su questi temi. Scrive infatti don Massimo: il martirio di chi è discepolo di Cristo è – in taluni contesti – proprio il martirio d’ogni “giusto”, illuminato però dal vangelo. Solo così la memoria di padre Pino non sarà oggetto di una "confisca sacrale" come se appartenesse solo alla Chiesa.

di Don Massimo Naro 


Don Massimo Naro

Il martirio cristiano, rientrando per sua natura nell’ordine dei segni, esige di essere decifrato e interpretato, per poter continuare a parlare al di là di se stesso, oltre il tempo e il luogo in cui esso si è consumato, oltre l’inevidenza che ne coibenta spesso – da ogni lato – la forza deflagrante, quasi a volerne sincopare l’indole provocatrice e la qualità profetica, relegandolo in mezzo ai fattacci di cronaca – dal punto di vista “umano” ad esso del tutto analoghi – che in una terra come la Sicilia sono così numerosi da sembrare a un certo punto eventi ordinari, costitutivi della normalità feriale, espressioni “tipiche del posto”.
Ciò è vero e vale soprattutto per l’uccisione di don Pino Puglisi, che non rimane soltanto un efferato delitto di mafia. Essa è anche la sua testimonianza di fede, amore, speranza. Lo ha tematizzato molto bene, con la sua scrittura letteraria, Mario Luzi nel dramma composto in memoria della morte del parroco di Brancaccio: Il fiore del dolore (un testo teatrale del 2003). Luzi, in una delle più belle pagine di questa sua opera, riferisce un immaginario colloquio tra il vicario generale della diocesi di Palermo e altri impiegati della curia, i quali si interrogano circa il senso di quanto tragicamente avvenuto a Brancaccio:


Una scena del "Fiore del dolore" di Mario Luzi, messo in scena al Biondo
Vicario

C’è stato un omicidio inconsueto,
la nostra cultura siciliana l’ha sentito differente.
Per questo l’agitazione e l’impazienza dei pubblici poteri,
lo sgomento di molti sinceri cittadini.
[…]
Sono certo inevitabili il puntiglio
e l’affanno di inquirenti intorno a quel misfatto.
Li seguii anche io ma con distacco.
La giustizia umana fa il suo corso,
osserva le sue stabilite procedure.
[…]
ma l’errore è nostro che ci adattiamo al mondo,
troppo, fino a perdere la nostra cristiana prospettiva.
Guardiamo all’accaduto con occhi troppo grevemente secolari.
Troppi di noi perseguono la logica medesima dei codici
e di coloro che li interpretano
ed è giusto e onesto,
ma la nostra ha richiami, segnali, avvertimenti più copiosi
e con essi ci parla da altitudini e profondità segrete
con una specialissima eloquenza.
Il nostro libro ha molte più pagine e un alfabeto fitto di meraviglie.
E abbiamo dalla nostra, non dimentichiamolo, l’effabile universo
del mistero che per altri è muto.

Un addetto
Credo di capire… L’assassinio di Puglisi non è solo un assassinio.

Vicario
Non possiamo limitarci a intenderlo
nel suo brutale aspetto di assassinio.
[…]
La società ha le sue regole, i suoi riti,
le sue autodifese.
Ma quest’episodio non è cronaca
e noi siamo tenuti a leggerlo
nel linguaggio alto,
quello inesplicabile della profezia.
Mario Luzi

Davvero siamo «tenuti» a leggere la morte violenta subita da don Pino Puglisi come un annuncio di redenzione che ci raggiunge nel nome di Dio. E che ci fa nutrire una nuova speranza. La riflessione teologica, variamente declinata in direzione storico-critica o sistematico-pastorale, può dare il suo contributo al fine di evitare che il martirio di chi è assassinato a causa del vangelo in una terra come la Sicilia sia semplicisticamente derubricato tra i vecchi articoli di nera nei quotidiani e nei rotocalchi di una città violenta come e più di tante altre.
Tuttavia, ciò non vuol dire che l’eccellenza martiriale debba sancire la confisca sacrale dell’assassinio di don Puglisi, quasi che esso appartenga solo alla comunità ecclesiale e non esprima invece delle speranze, delle attitudini anche, persino delle rivendicazioni condivise o almeno condivisibili da chi non crede, o assimilabili alla lotta e al sacrificio di altri protagonisti della resistenza alla mafia siciliana.
La beatificazione di don Puglisi – celebrata il 25 maggio 2013 – ci induce a chiederci quale rapporto si possa intravvedere fra il “martirio civile” di uomini come Falcone e Borsellino – per fare un esempio – e il martirio cristiano di uomini come il parroco di Brancaccio: che hanno da spartire i testimoni delle nostre comunità ecclesiali con gli eroi di cui pur sentiamo la nostalgia? La domanda è tutt’altro che oziosa o capziosa. Si tratta di districarsi tra l’entusiasmo di chi li fa coincidere e la diffidenza di chi sospetta un’indebita commistione o una prevaricazione degli uni sugli altri. Tenendo conto del fatto che il cristianesimo ha di per sé un risvolto civile, in quanto è situato storicamente, dentro la “città” degli uomini, occorre comunque formulare una risposta che non dia adito all’inflazione del concetto cristiano di martirio estendendolo tout court ad ogni morte eroica possibile e immaginabile e, al contempo, non divarichi lo stesso martirio cristiano rispetto alla morte pazientemente e coraggiosamente subita da chi pratica valori importanti come la giustizia, la legalità, il bene comune, tutte dimensioni della promozione umana da cui la Chiesa contemporanea sa di non dover e non poter disgiungere il suo impegno di evangelizzazione e di testimonianza alla verità di Dio rivelatasi in Cristo Gesù.
Per la teologia è importante incaricarsi di rispondere a questa domanda, anche per svolgere il compito che a questo proposito le assegnò Giovanni Paolo II. Il papa polacco, già nel 1982, additò in san Massimiliano Kolbe un «martire dell’amore» più e prima ancora che della fede. E dalle colonne de «L’Osservatore Romano», il 7 ottobre 1982, proprio in riferimento a Kolbe un articolo non firmato – e appunto per questo, secondo qualche commentatore, ancor più autorevole – consegnò ai teologi l’impegno di ridisegnare «il profilo esatto del martirio moderno», per giustificare la scelta del pontefice, «forse non decantata appieno nelle scuole» e tuttavia necessaria per mettere i cristiani del nostro tempo nella condizione di riprendere in considerazione «con coscienza e coerenza la piena attualità del martirio». Da qui, negli anni successivi, venne sortendo una martirologia “inclusiva”, nella quale sono rientrati, secondo le indicazioni dello stesso Giovanni Paolo II, quelli che di volta in volta egli ha chiamato «martiri della carità», «martiri della pace», «martiri dell’ateismo» e, proprio in riferimento al sacrificio di uomini del Sud Italia come il giudice Rosario Livatino – ma, poi, anche di preti come don Giuseppe Diana e don Pino Puglisi –, «martiri della giustizia». Nuovi tipi di martiri e di martirii che sono riconducibili al motivo classico della fede professata dalla vittima e osteggiata dai carnefici proprio perché lasciano intuire efficacemente la circolarità teologale – con l’amore e con la speranza – in cui la fede stessa viene così vissuta più che semplicemente proclamata, al di là della sua accezione meramente dottrinale, dando luogo a tutta una serie di concrete azioni di giustizia che in certi contesti risultano, per chi non vive di Cristo, delle insopportabili e imperdonabili provocazioni e costituiscono l’intenzione radicale e il motivo fondamentale della martyria di chi testimonia – fino a patire la morte – la propria fedeltà a Cristo.
Salvaguardare la distinzione tra martirio civile e martirio cristiano senza esasperarla in distanza è, però, difficile. Per riuscirci bisogna ricomprendere il senso del martirio cristiano nel quadro della moderna secolarizzazione, la quale – nell’Occidente di antica ma svigorita tradizione cristiana – ha metabolizzato così a fondo le istanze evangeliche da giungere a concepirle quasi “naturalmente”, in termini ormai impliciti, non più consapevolmente riferiti all’esempio di Cristo. Si pensi allo slogan voltairiano – «Non la penserò mai come te, ma sono disposto a morire affinché tu dica il tuo parere» – che, mentre assimila l’insegnamento di Gesù secondo cui occorre porgere l’altra guancia e amare anche i propri avversari, rende paradossalmente superflua o almeno improbabile – in terre come l’Europa mediterranea – la possibilità di essere uccisi a causa delle proprie convinzioni religiose.
In realtà, in una tale temperie, il martirio non cessa di essere possibile e anzi “necessario” per continuare a segnare con tratti peculiari il volto del cristianesimo ecclesiale. Ma diventa urgente allargarne il senso, senza inflazionarne la qualità. Più precisamente diventa importante – ancor più che estendere il “concetto” di martirio – dilatare l’identità dei martiri, considerandoli come coloro che, oltre a dare la vita per un ideale e persino per qualcuno, muoiono “conQualcuno, venendo coinvolti nel martirio stesso di Cristo. Si badi bene: questo tentativo di smarcare l’identità dei martiri dal concetto del martirio non tende a divaricare e, al limite, contrapporre il martirio e i martiri, ma a distinguere debitamente il concetto dall’identità, la quale rispetto al primo ha un profilo certamente meno astratto, più marcato e radicale e, perciò, esistenzialmente più esigente. La nuova martirologia, così, passando dal tentativo di estendere il concetto del martirio al tentativo di dilatare l’identità del martire, passa pure dalla considerazione di un’idea e di un ideale, pur nobilissimi, alla considerazione di alcuni vissuti concreti, cui non applicare più – deduttivamente – un’etichetta teologica, ma da cui piuttosto ricavare – induttivamente – una teologia della testimonianza cristiana.
In questa prospettiva sono andate le riflessioni – pur differenti – di teologi come Balthasar e come Rahner o di alcuni latino-americani come Ellacuría e Jiménez Limón, d’accordo nell’ammettere che chi viene ucciso perché professa la fede cristiana non può non morire per la sua fedeltà a Cristo vissuta nella pratica della verità e della giustizia: così come è stato nel caso paradigmatico della martyria di Gesù stesso, costitutiva di ogni altra autentica e compiuta martyria. In tal modo si arriva a comprendere – come aveva già capito nel medioevo san Tommaso e come ha gridato Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 – che il martire cristiano non è soltanto chi dà la vita a motivo della fede, come il martire civile non è soltanto chi viene ucciso per la giustizia. Anche il martire cristiano, in fedeltà a Cristo, può morire per la giustizia. E anche il martire civile può ritrovarsi associato a Cristo – modo Deo cognito, potremmo dire con GS 22 – mentre si sacrifica per la giustizia.
La giustizia di cui qui si parla non è soltanto quella richiesta all’uomo, bensì la giustizia elargita all’uomo; non è solo un’esigenza etica ma anche un dono di salvezza; non è solo l’equità rivendicata eroicamente dal basso ma anche la dignità inalienabile in quanto conferita dall’alto. Soprattutto, tale giustizia non è solo la più importante delle virtù umane, ma anche il modo concreto in cui nella Bibbia si traduce la santità: il Dio Santo è il Dio Giusto, e l’uomo santo è l’uomo giusto che si lascia conquistare dalla giustizia di Dio e si mette al suo servizio: è questo il destino del Servo sofferente interpretato da Gesù, nella cui vicenda la giustizia di Dio e la giustizia dell’uomo non sono più disgiungibili. Il martire per la giustizia è dunque uno che si fa strumento della giustizia di Dio a favore dei più bisognosi di essa tra gli uomini, anche a costo della propria vita; egli sa che può evitare la morte solo smettendo di operare per la giustizia; ma non smette perché sa che in tal caso tradirebbe la volontà del Dio Giusto. Il martire non vuole la morte, anche se sa che la morte può arrivare contro di lui e non si sottrae ad essa per rimanere coerente e perseverante nel servizio alla giustizia per gli uomini e, quindi, al Dio della giustizia. Di fronte a un peccato di ingiustizia così pervasivo nella società come lo è la mafia in Sicilia, il servizio martiriale reso da credenti come Puglisi può contribuire a stimolare un’altrettanto pervasiva testimonianza ecclesiale al servizio della giustizia di Dio e degli uomini.
Per guadagnare quest’intelligenza teologica del martirio cristiano è necessario ricomprendere sub evangelii luce, sulla scorta della lezione del Vaticano II, tutte le sue dimensioni: quella umana, come dimensione radicalmente morale sormontata e insieme visitata da Dio, a lui ricondotta perché da lui sostenuta; quella credente, incardinata non solo nella fede creduta (fides quae, potremmo dire con la teologia classica) ma anche nell’atto di fede (fides qua), vissuto in teologale circolarità con la speranza e con l’amore; quella ecclesiale, nella quale diventa visibile e significativo anche di fronte al mondo ciò che è visto da Dio. Si tratta di un’ermeneutica specificamente cristiana, che può farci rendere conto che il martirio di chi è discepolo di Cristo è – in taluni contesti – proprio il martirio d’ogni “giusto”, illuminato però dal vangelo.
Mi pare si possa cogliere anche in questo caso l’intreccio tra la carne e lo Spirito in cui consiste – nel solco dell’Incarnazione – ogni autentica vicenda cristiana: lo Spirito è sempre nella carne, così come è sempre nella lettera del vangelo, mai a prescindere da essa.
Padre Pino Puglisi

Per ricostruire e raccontare attendibilmente la vicenda di uno spirituale, difatti, bisogna prendersi carico di una particolare dialettica: quella tra continuità e discontinuità. Continuità: cioè stretta connessione, inevitabile influsso reciproco, interdipendenza tra l’individuo e l’ambiente sociale cui questi fa riferimento, tra il singolo credente e la comunità ecclesiale di cui è membro. E discontinuità: cioè capacità – in obbedienza a Dio – di eccellere rispetto a quel medesimo ambiente di riferimento, di emergere in e da quella stessa comunità di appartenenza.
Uno spirituale non cessa mai d’essere situato nella storia comune degli uomini: egli è e rimane impastato dell’umanità che condivide con coloro che vivono assieme a lui, nel posto e nel tempo in cui egli stesso vive e opera. E, tuttavia, è anche toccato da Dio, interpellato, raggiunto, guidato dal suo Signore, che intrattiene con lui un rapporto “grazioso”: gli si dona, dimora presso di lui, inabita in lui. In questo senso l’esperienza spirituale è innanzitutto l’azione di Dio nell’esistenza del credente, il quale è lui stesso uno “spirituale” in quanto resta docile alla Presenza dello Spirito Santo che lo pervade. La spiritualità dice, appunto, il primato e la priorità dell’iniziativa divina nei confronti di un uomo, eletto ad un rapporto di stretta amicizia con Dio: è la vita dello Spirito di Dio in quell’uomo, il quale così è pure messo in condizione di vivere secondo lo Spirito, di adeguare cioè la propria vita a quella di Dio che viene a vivere con lui. Ciò può accadere, come è spiegato nella Lumen gentium n. 40, per tutti, senza esclusione: la vocazione alla santità è universale. Ma questo non avviene in tutti allo stesso modo: ognuno, per il luogo e l’epoca  in cui vive, per le condizioni in cui si trova e per i condizionamenti positivi o negativi che riverberano su di lui proprio da quelle condizioni, per la sensibilità personale che ha, per la configurazione caratteriale, psicologica e intellettuale che ha via via assunto, per la formazione culturale che ha maturato, per tanti altri fattori “umani”, ma anche e soprattutto per il particolare carisma pneumatico ricevuto “in dote” dal Signore, ascolta la chiamata all’amicizia con Dio in maniera peculiare; e risponde in termini ancora una volta molto specifici. Se è vero che Dio chiama tutti, non tutti però sentono, o non tutti rispondono; e non tutti sentono e rispondono allo stesso modo.
La vicenda di uno spirituale, anche quella di un martire, vista in questa prospettiva, appare come una sorta di matassa, arrotolata di fili diversi ma legati assieme: per dipanarla occorre discernere tra i vari fili senza compromettere i nodi che li stringono insieme. Si tratta di distinguere senza distanziare ciò che – di epocale, di sociale, di culturale, di ecclesiale persino – accomuna quello spirituale, nel nostro caso il martire don Puglisi, agli altri suoi contemporanei e ciò che – di grazioso, di carismatico, di pneumatico – costituisce la radicale novità del suo modo di lasciarsi incontrare da Dio.
Ecco perché occorre sondare la peculiare maniera con cui don Puglisi attinse dal messaggio biblico e dal vangelo le ragioni della sua scelta di proclamare i “diritti di Dio”, come già il Servo di Jhwh e come Gesù stesso. E occorre, altresì, verificare il suo metodo della “tenerezza” quale “arma impropria” per resistere evangelicamente alla mafia, mentre pure conviene riscoprire e riavviare l’interessantissimo progetto pastorale, pensato e anzi calibrato appositamente per la parrocchia di Brancaccio dallo stesso don Pino, il quale ne aveva disegnato personalmente i contorni e i profili, decidendone le finalità e persino la portata, che nelle sue intenzioni e speranze doveva avere la lunga gittata dei decenni e la forza di cambiare in positivo il volto di quel suo quartiere. Per ricordare, così, il senso autentico del martirio sperimentato “in odio al vangelo” da un uomo mite e vero come il beato Pino Puglisi.



* Pubblicato in Aa.Vv., Pino Puglisi per il vangelo. La testimonianza cristiana di un martire siciliano, a cura di Massimo Naro, Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 2014, pp. 7-15.

3 commenti:

  1. Rosario è l'uomo da cui traggo esempio per la mia vita quotidiana. Che dono ha fatto Cristo alla Sicilia. SubTutela Dei
    Giuseppe Patti

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  2. SANTO SUBITO ANCHE IL GIUDICE BAMBINO.
    Giuseppe Crimaldi

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  3. Si anche Saro Livatino e' un martire e un Cristiano esamplare, sì spero che sara Beato presto.
    Jerome Collura

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