Rosario Livatino |
Dopo la beatificazione di padre Pino Puglisi, che è stata di portata storica, quali prospettive teologiche si pongono sul concetto di martirio? Si potrà sviluppare il tema dei "martiri della giustizia" lanciato da Giovanni Paolo II, ampliando la platea dei martiri anche a coloro che sono stati uccisi non solo in odio alla loro fede? Diverse figure di credenti laici si avanzano alla memoria in questa prospettiva e la prima è quella del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia, per il quale è in corso una istruttoria nella diocesi di Agrigento. Su questi temi il teologo don Massimo Naro, acuto studioso del "caso Puglisi" e delle sue implicazioni, ha scritto un saggio che ora ci ha inviato per la pubblicazione sul blog che state leggendo. Lo ringraziamo insieme con una preghiera affinché il cammino della Chiesa possa elevarsi attraverso una maturazione ulteriore su questi temi. Scrive infatti don Massimo: il martirio di chi è discepolo di Cristo è – in taluni contesti – proprio il martirio d’ogni “giusto”, illuminato però dal vangelo. Solo così la memoria di padre Pino non sarà oggetto di una "confisca sacrale" come se appartenesse solo alla Chiesa.
di Don Massimo Naro
Don Massimo Naro |
Il martirio cristiano, rientrando per sua natura nell’ordine
dei segni, esige di essere decifrato e interpretato, per poter continuare a
parlare al di là di se stesso, oltre il tempo e il luogo in cui esso si è
consumato, oltre l’inevidenza che ne coibenta spesso – da ogni lato – la forza
deflagrante, quasi a volerne sincopare l’indole provocatrice e la qualità
profetica, relegandolo in mezzo ai fattacci di cronaca – dal punto di vista
“umano” ad esso del tutto analoghi – che in una terra come la Sicilia sono così
numerosi da sembrare a un certo punto eventi ordinari, costitutivi della
normalità feriale, espressioni “tipiche del posto”.
Ciò è vero e vale soprattutto per l’uccisione di don Pino Puglisi,
che non rimane soltanto un efferato delitto di mafia. Essa è anche la sua
testimonianza di fede, amore, speranza. Lo ha tematizzato molto bene, con la
sua scrittura letteraria, Mario Luzi nel dramma composto in memoria della morte
del parroco di Brancaccio: Il fiore del dolore (un testo teatrale del 2003). Luzi, in una delle più belle
pagine di questa sua opera, riferisce un immaginario colloquio tra il vicario
generale della diocesi di Palermo e altri impiegati della curia, i quali si
interrogano circa il senso di quanto tragicamente avvenuto a Brancaccio:
Una scena del "Fiore del dolore" di Mario Luzi, messo in scena al Biondo |
C’è
stato un omicidio inconsueto,
la
nostra cultura siciliana l’ha sentito differente.
Per
questo l’agitazione e l’impazienza dei pubblici poteri,
lo
sgomento di molti sinceri cittadini.
[…]
Sono
certo inevitabili il puntiglio
e
l’affanno di inquirenti intorno a quel misfatto.
Li
seguii anche io ma con distacco.
La
giustizia umana fa il suo corso,
osserva
le sue stabilite procedure.
[…]
ma
l’errore è nostro che ci adattiamo al mondo,
troppo,
fino a perdere la nostra cristiana prospettiva.
Guardiamo
all’accaduto con occhi troppo grevemente secolari.
Troppi
di noi perseguono la logica medesima dei codici
e
di coloro che li interpretano
ed
è giusto e onesto,
ma
la nostra ha richiami, segnali, avvertimenti più copiosi
e
con essi ci parla da altitudini e profondità segrete
con
una specialissima eloquenza.
Il
nostro libro ha molte più pagine e un alfabeto fitto di meraviglie.
E
abbiamo dalla nostra, non dimentichiamolo, l’effabile universo
del
mistero che per altri è muto.
Un addetto
Credo
di capire… L’assassinio di Puglisi non è solo un assassinio.
Vicario
Non
possiamo limitarci a intenderlo
nel
suo brutale aspetto di assassinio.
[…]
La
società ha le sue regole, i suoi riti,
le
sue autodifese.
Ma quest’episodio
non è cronaca
e
noi siamo tenuti a leggerlo
nel
linguaggio alto,
quello
inesplicabile della profezia.
Mario Luzi |
Davvero siamo «tenuti» a leggere la morte violenta subita da
don Pino Puglisi come un annuncio di redenzione che ci raggiunge nel nome di Dio.
E che ci fa nutrire una nuova speranza. La riflessione teologica, variamente
declinata in direzione storico-critica o sistematico-pastorale, può dare il suo
contributo al fine di evitare che il martirio di chi è assassinato a causa del
vangelo in una terra come la Sicilia sia semplicisticamente derubricato tra i
vecchi articoli di nera nei quotidiani e nei rotocalchi di una città violenta
come e più di tante altre.
Tuttavia, ciò non vuol dire che l’eccellenza martiriale
debba sancire la confisca sacrale dell’assassinio di don Puglisi, quasi che
esso appartenga solo alla comunità ecclesiale e non esprima invece delle
speranze, delle attitudini anche, persino delle rivendicazioni condivise o
almeno condivisibili da chi non crede, o assimilabili alla lotta e al
sacrificio di altri protagonisti della resistenza alla mafia siciliana.
La beatificazione di don Puglisi – celebrata il 25 maggio 2013
– ci induce a chiederci quale rapporto si possa intravvedere fra il “martirio civile” di uomini come Falcone e
Borsellino – per fare un esempio – e il martirio cristiano di uomini come il
parroco di Brancaccio: che hanno da spartire i testimoni delle nostre comunità
ecclesiali con gli eroi di cui pur sentiamo la nostalgia? La domanda è
tutt’altro che oziosa o capziosa. Si tratta di districarsi tra l’entusiasmo di
chi li fa coincidere e la diffidenza di chi sospetta un’indebita commistione o
una prevaricazione degli uni sugli altri. Tenendo conto del fatto che il
cristianesimo ha di per sé un risvolto civile, in quanto è situato
storicamente, dentro la “città” degli uomini, occorre comunque formulare una
risposta che non dia adito all’inflazione del concetto cristiano di martirio
estendendolo tout court ad ogni morte
eroica possibile e immaginabile e, al contempo, non divarichi lo stesso
martirio cristiano rispetto alla morte pazientemente e
coraggiosamente subita da chi pratica valori importanti come la
giustizia, la legalità, il bene comune, tutte dimensioni della promozione
umana da cui la Chiesa
contemporanea sa di non dover e non poter disgiungere il suo impegno di
evangelizzazione e di testimonianza alla verità di Dio rivelatasi in Cristo
Gesù.
Per la teologia è
importante incaricarsi di rispondere a questa domanda, anche per svolgere il
compito che a questo proposito le assegnò Giovanni Paolo II. Il papa polacco,
già nel 1982, additò in san Massimiliano Kolbe un «martire dell’amore» più e
prima ancora che della fede. E dalle colonne de «L’Osservatore Romano», il 7
ottobre 1982, proprio in riferimento a Kolbe un articolo non firmato – e
appunto per questo, secondo qualche commentatore, ancor più autorevole –
consegnò ai teologi l’impegno di ridisegnare «il profilo esatto del martirio
moderno», per giustificare la scelta del pontefice, «forse non decantata
appieno nelle scuole» e tuttavia necessaria per mettere i cristiani del nostro
tempo nella condizione di riprendere in considerazione «con coscienza e
coerenza la piena attualità del martirio». Da qui, negli anni successivi, venne
sortendo una martirologia “inclusiva”, nella quale sono rientrati, secondo le
indicazioni dello stesso Giovanni Paolo II, quelli che di volta in volta egli
ha chiamato «martiri della carità», «martiri della pace», «martiri
dell’ateismo» e, proprio in riferimento al sacrificio di uomini del Sud Italia
come il giudice Rosario Livatino – ma, poi, anche di preti come don Giuseppe
Diana e don Pino Puglisi –, «martiri della giustizia». Nuovi tipi di martiri e
di martirii che sono riconducibili al motivo classico della fede professata
dalla vittima e osteggiata dai carnefici proprio perché lasciano intuire
efficacemente la circolarità teologale – con l’amore e con la speranza – in cui
la fede stessa viene così vissuta più
che semplicemente proclamata, al di là della sua accezione meramente
dottrinale, dando luogo a tutta una serie di concrete azioni di giustizia che
in certi contesti risultano, per chi non vive di Cristo, delle insopportabili e
imperdonabili provocazioni e costituiscono l’intenzione radicale e il motivo
fondamentale della martyria di chi
testimonia – fino a patire la morte – la propria fedeltà a Cristo.
Salvaguardare la
distinzione tra martirio civile e martirio cristiano senza esasperarla in
distanza è, però, difficile. Per riuscirci bisogna ricomprendere il senso del
martirio cristiano nel quadro della moderna secolarizzazione, la quale –
nell’Occidente di antica ma svigorita tradizione cristiana – ha
metabolizzato così a fondo le istanze evangeliche da giungere a concepirle
quasi “naturalmente”, in termini ormai impliciti, non più consapevolmente
riferiti all’esempio di Cristo. Si pensi allo slogan voltairiano – «Non la
penserò mai come te, ma sono disposto a morire affinché tu dica il tuo parere»
– che, mentre assimila l’insegnamento di Gesù secondo cui occorre porgere
l’altra guancia e amare anche i propri avversari, rende paradossalmente
superflua o almeno improbabile – in terre come l’Europa mediterranea – la possibilità di essere uccisi a causa
delle proprie convinzioni religiose.
In realtà, in una
tale temperie, il martirio non cessa di essere possibile e anzi “necessario”
per continuare a segnare con tratti peculiari il volto del cristianesimo
ecclesiale. Ma diventa urgente allargarne il senso, senza inflazionarne la
qualità. Più precisamente diventa importante – ancor più che estendere il
“concetto” di martirio – dilatare l’identità dei martiri, considerandoli come
coloro che, oltre a dare la vita per un ideale e persino per
qualcuno, muoiono “con” Qualcuno, venendo coinvolti nel martirio stesso di
Cristo. Si badi bene: questo tentativo di smarcare l’identità dei martiri dal concetto
del martirio non tende a divaricare e, al limite, contrapporre il martirio
e i martiri, ma a distinguere debitamente il concetto dall’identità, la quale
rispetto al primo ha un profilo certamente meno astratto, più marcato e
radicale e, perciò, esistenzialmente più esigente. La nuova martirologia, così,
passando dal tentativo di estendere il concetto del martirio al tentativo di
dilatare l’identità del martire, passa pure dalla considerazione di un’idea e
di un ideale, pur nobilissimi, alla considerazione di alcuni vissuti concreti,
cui non applicare più – deduttivamente – un’etichetta teologica, ma da cui
piuttosto ricavare – induttivamente – una teologia della testimonianza
cristiana.
In questa prospettiva
sono andate le riflessioni – pur differenti – di teologi come Balthasar e
come Rahner o di alcuni latino-americani come Ellacuría e Jiménez
Limón, d’accordo nell’ammettere che chi viene ucciso perché professa la
fede cristiana non può non morire per la sua fedeltà a Cristo vissuta
nella pratica della verità e della giustizia: così come è stato nel caso
paradigmatico della martyria di Gesù
stesso, costitutiva di ogni altra autentica e compiuta martyria. In tal modo si arriva a
comprendere – come aveva già capito nel medioevo san Tommaso e come ha gridato
Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 – che il martire cristiano non è
soltanto chi dà la vita a motivo della fede, come il martire civile non è
soltanto chi viene ucciso per la giustizia. Anche il martire cristiano, in
fedeltà a Cristo, può morire per la giustizia. E anche il martire civile può
ritrovarsi associato a Cristo – modo Deo
cognito, potremmo dire con GS 22 – mentre si sacrifica per la giustizia.
La giustizia di cui qui si parla non è
soltanto quella richiesta all’uomo, bensì la giustizia elargita all’uomo; non è
solo un’esigenza etica ma anche un dono di salvezza; non è solo l’equità
rivendicata eroicamente dal basso ma anche la dignità inalienabile in quanto
conferita dall’alto. Soprattutto, tale giustizia non è solo la più importante
delle virtù umane, ma anche il modo concreto in cui nella Bibbia si traduce la
santità: il Dio Santo è il Dio Giusto, e l’uomo santo è l’uomo giusto che si
lascia conquistare dalla giustizia di Dio e si mette al suo servizio: è questo
il destino del Servo sofferente interpretato da Gesù, nella cui vicenda la
giustizia di Dio e la giustizia dell’uomo non sono più disgiungibili. Il
martire per la giustizia è dunque uno che si fa strumento della giustizia di
Dio a favore dei più bisognosi di essa tra gli uomini, anche a costo della
propria vita; egli sa che può evitare la morte solo smettendo di operare per la
giustizia; ma non smette perché sa che in tal caso tradirebbe la volontà del
Dio Giusto. Il martire non vuole la morte, anche se sa che la morte può
arrivare contro di lui e non si sottrae ad essa per rimanere coerente e
perseverante nel servizio alla giustizia per gli uomini e, quindi, al Dio della
giustizia. Di fronte a un peccato di ingiustizia così pervasivo nella
società come lo è la mafia in Sicilia, il servizio martiriale reso da credenti
come Puglisi può contribuire a stimolare un’altrettanto pervasiva testimonianza
ecclesiale al servizio della giustizia di Dio e degli uomini.
Per guadagnare
quest’intelligenza teologica del martirio cristiano è necessario ricomprendere sub evangelii luce, sulla scorta
della lezione del Vaticano II, tutte le
sue dimensioni: quella umana, come dimensione radicalmente morale sormontata e
insieme visitata da Dio, a lui ricondotta perché da lui sostenuta; quella
credente, incardinata non solo nella fede creduta (fides quae, potremmo dire con la teologia classica) ma anche
nell’atto di fede (fides qua),
vissuto in teologale circolarità con la speranza e con l’amore; quella ecclesiale,
nella quale diventa visibile e significativo anche di fronte al mondo ciò che è
visto da Dio. Si tratta di un’ermeneutica specificamente cristiana, che può
farci rendere conto che il martirio di chi è discepolo di Cristo è – in taluni
contesti – proprio il martirio d’ogni “giusto”, illuminato però dal vangelo.
Mi pare si possa
cogliere anche in questo caso l’intreccio tra la carne e lo Spirito in cui
consiste – nel solco dell’Incarnazione – ogni autentica vicenda cristiana: lo
Spirito è sempre nella carne, così come è sempre nella lettera del vangelo, mai
a prescindere da essa.
Padre Pino Puglisi |
Per ricostruire e raccontare attendibilmente la vicenda di
uno spirituale, difatti, bisogna prendersi carico di una particolare
dialettica: quella tra continuità e discontinuità. Continuità: cioè stretta
connessione, inevitabile influsso reciproco, interdipendenza tra l’individuo e
l’ambiente sociale cui questi fa riferimento, tra il singolo credente e la
comunità ecclesiale di cui è membro. E discontinuità: cioè capacità – in obbedienza
a Dio – di eccellere rispetto a quel medesimo ambiente di riferimento, di
emergere in e da quella stessa comunità di appartenenza.
Uno spirituale non cessa mai d’essere situato nella storia
comune degli uomini: egli è e rimane impastato dell’umanità che condivide con
coloro che vivono assieme a lui, nel posto e nel tempo in cui egli stesso vive
e opera. E, tuttavia, è anche toccato da Dio, interpellato, raggiunto, guidato
dal suo Signore, che intrattiene con lui un rapporto “grazioso”: gli si dona, dimora
presso di lui, inabita in lui. In questo senso l’esperienza spirituale è
innanzitutto l’azione di Dio nell’esistenza del credente, il quale è lui stesso
uno “spirituale” in quanto resta docile alla Presenza dello Spirito Santo che
lo pervade. La spiritualità dice, appunto, il primato e la priorità
dell’iniziativa divina nei confronti di un uomo, eletto ad un rapporto di
stretta amicizia con Dio: è la vita dello Spirito di Dio in quell’uomo, il
quale così è pure messo in condizione di vivere secondo lo Spirito, di adeguare
cioè la propria vita a quella di Dio che viene a vivere con lui. Ciò può
accadere, come è spiegato nella Lumen
gentium n. 40, per tutti, senza esclusione: la vocazione alla santità è
universale. Ma questo non avviene in tutti allo stesso modo: ognuno, per il
luogo e l’epoca in cui vive, per le
condizioni in cui si trova e per i condizionamenti positivi o negativi che
riverberano su di lui proprio da quelle condizioni, per la sensibilità personale
che ha, per la configurazione caratteriale, psicologica e intellettuale che ha
via via assunto, per la formazione culturale che ha maturato, per tanti altri
fattori “umani”, ma anche e soprattutto per il particolare carisma pneumatico
ricevuto “in dote” dal Signore, ascolta la chiamata all’amicizia con Dio in
maniera peculiare; e risponde in termini ancora una volta molto specifici. Se è
vero che Dio chiama tutti, non tutti però sentono, o non tutti rispondono; e
non tutti sentono e rispondono allo stesso modo.
La vicenda di uno spirituale, anche quella di un martire,
vista in questa prospettiva, appare come una sorta di matassa, arrotolata di
fili diversi ma legati assieme: per dipanarla occorre discernere tra i vari
fili senza compromettere i nodi che li stringono insieme. Si tratta di distinguere
senza distanziare ciò che – di epocale, di sociale, di culturale, di ecclesiale
persino – accomuna quello spirituale, nel nostro caso il martire don Puglisi,
agli altri suoi contemporanei e ciò che – di grazioso, di carismatico, di
pneumatico – costituisce la radicale novità del suo modo di lasciarsi
incontrare da Dio.
Ecco perché occorre sondare la peculiare maniera con cui don Puglisi
attinse dal messaggio biblico e dal vangelo le ragioni della sua scelta di
proclamare i “diritti di Dio”, come già il Servo di Jhwh e come Gesù stesso. E occorre,
altresì, verificare il suo metodo della “tenerezza” quale “arma impropria” per
resistere evangelicamente alla mafia, mentre pure conviene riscoprire e
riavviare l’interessantissimo progetto pastorale, pensato e anzi calibrato
appositamente per la parrocchia di Brancaccio dallo stesso don Pino, il quale
ne aveva disegnato personalmente i contorni e i profili, decidendone le
finalità e persino la portata, che nelle sue intenzioni e speranze doveva avere
la lunga gittata dei decenni e la forza di cambiare in positivo il volto di
quel suo quartiere. Per ricordare, così, il senso autentico del martirio
sperimentato “in odio al vangelo” da un uomo mite e vero come il beato Pino
Puglisi.
* Pubblicato in Aa.Vv., Pino Puglisi per
il vangelo. La testimonianza cristiana di un martire siciliano, a cura di Massimo Naro, Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 2014,
pp. 7-15.
Rosario è l'uomo da cui traggo esempio per la mia vita quotidiana. Che dono ha fatto Cristo alla Sicilia. SubTutela Dei
RispondiEliminaGiuseppe Patti
SANTO SUBITO ANCHE IL GIUDICE BAMBINO.
RispondiEliminaGiuseppe Crimaldi
Si anche Saro Livatino e' un martire e un Cristiano esamplare, sì spero che sara Beato presto.
RispondiEliminaJerome Collura