«Se vogliamo una città che stia bene, dobbiamo ripartire dai più deboli». Si sente già palermitano monsignor Corrado Lorefice (anche se preferisce un «don Corrado» più colloquiale), nuovo arcivescovo di Palermo, che a un mese esatto dal suo insediamento in diocesi fissato per il 5 dicembre, parla per la prima volta a tutto campo della sua nuova missione. Dell’ansia per la nomina a sorpresa, ma anche del legame con il «mio don Pino», a cui ha dedicato un bel volume. La casula rossa indossata per la beatificazione di padre Puglisi «la tengo come una reliquia». Ieri in Vaticano ha fatto il giuramento previsto per i nuovi vescovi e ha incontrato Papa Francesco: «È stato amabilissimo con me, mi ha detto cose bellissime che porto nel cuore».
Don Corrado, come sta, dopo lo shock per l’incarico che le è stato affidato?
«Come sto? Capisco che è un servizio che mi richiederà una grande donazione, una grande lucidità, rettitudine di cuore. Tutti quelli che mi incontrano mi augurano “in bocca al lupo”, però, siccome non l’ho cercato io questo incarico ma è dono di grazia, confido nell’aiuto del Signore e sono convinto che proprio Lui mi metterà accanto i miei sacerdoti, i laici che desiderano che la nostra Chiesa di Palermo sia un segno bello per tutti».
A Palermo c’è una grande attesa. Lei nella lettera alla diocesi ha fissato alcuni punti essenziali: ascolto, dialogo. Da dove vuole cominciare?
«Quello che ho scritto nella lettera sono proprio io. Comincio col sentirmi già parte di questa città, mi sento un concittadino e un condiocesano. Mi appartiene la Chiesa di Palermo e mi appartiene la città, dobbiamo edificare la città e la Chiesa nel segno del bene e di queste attese che vengono dal cuore della gente che soffre e che desidera parole di cambiamento e di speranza. Non ho in mente chissà quali progetti, ma io mi sento parte integrante di questa realtà che vogliamo costruire insieme. So quanta energia c’è nel clero, nei laici, nei religiosi, perché alcuni li conosco e poi in questi giorni ho ricevuto una coralità di affetto e disponibilità che mi commuove».
Lei conosce già la città?
«Sono stato varie volte a Palermo per diversi motivi. La frequentavo negli anni in cui sono stato direttore regionale per le vocazioni, dal 1997 al 2007, ma conosco ancora poco. Veramente mi sento già parte della città. Diciamo tante parole noi preti sul matrimonio, sulla sponsalità, sulla fedeltà, ma un vescovo è prima di tutto lo sposo di una Chiesa e questa la sento come la mia carne, farò di tutto per custodirla e per amarla».
In un suo libro su Dossetti e Lercaro ha parlato di Chiesa povera e per i poveri. In un territorio con tassi di disoccupazione a due cifre, con l’emergenza dei senzacasa, con una povertà anche maggiore rispetto alla zona da cui lei proviene, quale messaggio vuole dare?
«Il messaggio che voglio dare è che noi, comunità cristiana, dobbiamo essere a maggior ragione più semplici, più attenti a non farci distrarre da altro, proprio perché ci sono queste emergenze. Desidero contribuire a far sì che tutti possiamo avere a cuore la nostra città e quindi promuoverò il dialogo con tutte le istituzioni, affinché non perdiamo di vista il motivo per cui noi abbiamo un servizio, sia esso civile, politico, religioso, ossia il bene dei suoi figli più segnati dalla pesantezza della vita. Io farò di tutto per ricordare alla mia Chiesa e alle istituzioni che bisogna ripensare il mondo e la nostra città a partire dalle fasce più deboli. Non perché ho una sensibilità sociale, ma perché è un’istanza che nacque dal Concilio Vaticano II. La Chiesa non può che essere così, non perché ha una missione sociale, ma perché è una carne del Cristo che ha rivelato se stesso come il Messia dei poveri. Il Vangelo è tale perché dice che i poveri sono beati. E questa è una parola diversa da quella che si sente dire nella logica degli uomini. Il motto del mio episcopato sarà preso dalla lavanda dei piedi del vangelo di Giovanni: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi”. La città degli uomini dobbiamo costruirla nel bene, ognuno al suo posto, rispettando la laicità, ma con un unico ideale: se vogliamo una città che stia bene dobbiamo ripartire dai più deboli, dismettere le categorie del potere, eventualmente anche quello ecclesiastico».
Da un lato c’è Papa Francesco, dall’altro la chiesa dei veleni. Questo non rischia di disorientare la gente?
«Io farò di tutto, con la mia Chiesa palermitana, per far vedere il volto di una Chiesa umile che segue il suo Signore nelle parole e nei gesti, Lui che era ricco e si è fatto povero, Lui che era il figlio di Dio e si è fatto uomo. Sarà questa una sorta di programma pastorale che vorrò condividere con tutti, a partire dai miei sacerdoti a cui voglio dedicare ascolto, attenzione, pur sapendo cosa significa diventare vescovo di una diocesi enorme come quella di Palermo».
La sua familiarità con padre Puglisi non le fa pensare: ma chi me lo doveva dire che dovevo finire a Palermo, consacrato vescovo davanti alla sua tomba?
«Lo dico 3.550 volte al giorno (sorride di gusto, ndr). Ho sentito Agostina Ajello (stretta collaboratrice di don Pino Puglisi, ndr), mi ha ricordato che don Pino mi voleva bene dal primo momento che mi ha conosciuto e anche lei mi ha detto: “Ma chi te lo doveva dire?”. E anche io me lo ripeto continuamente. C’è certamente una sua intercessione in tutto questo. Ci saranno state delle contingenze umane, perché il mio nome qualcuno lo avrà fatto, ma la nomina è frutto realmente della sua intecessione».
Ma la presenza di padre Puglisi nella sua vita in che modo la guida?
«Mi lascia la sua rettitudine, la sua umiltà e la sua semplicità, ma soprattutto la ferialità della sua testimonianza. L’ho ripetuto tantissime volte: don Pino non era un prete antimafia, era un cristiano e un sacerdote. Se faceva la direzione spirituale o doveva stare a Brancaccio, l’idea sua era dire agli altri: voi siete dei figli di Dio liberi, crescete in questa consapevolezza e costruiremo un mondo diverso. Poi è stato a Brancaccio e ha letto quella realtà, ma la sua è stata un’opera sociale perché fortemente motivata dalla sua fede in Cristo e dal suo ministero sacerdotale. Un prete in tre anni non ha nemmeno il tempo di conoscere i parrocchiani e lui in tre anni si è fatto ammazzare, non perché andava a muso duro, ma perché creava coscienza umana, che per noi cristiani nasce dall’identità di essere figli di Dio. Questa è la vera opposizione ad ogni mentalità mafiosa, che è ovunque, nel modo in cui faccio il docente o il fruttivendolo. Don Pino ha voluto un centro intitolato “Padre nostro” proprio per portare l’identità di figlio di Dio in un territorio in cui ci poteva essere come referente e “padrino” un potere più occulto».
Quando don Puglisi fu ucciso lei cosa pensò?
«Io ero a Ispica, non si sapeva ancora chi fosse stato ucciso, non pensavo assolutamente a lui, anche se sapevo che si trovava in un quartiere problematico. Infatti, quando il cardinale Pappalardo lo fece parroco, noi avevamo un incontro regionale di pastorale vocazionale a cui lui venne per l’ultima volta. Noi gli chiedemmo di restare, di continuare a fare il direttore regionale del centro per le vocazioni e il parroco. Ma lui disse di no, perché la realtà affidatagli era complessa e ad essa doveva donarsi totalmente».
La chiamano già vescovo in stile Papa Francesco. Perché?
«Forse per la semplicità, perché mi piace stare in mezzo alla gente. È una cosa connaturata in me, maturata dalla mia famiglia e dalla Chiesa dalla quale provengo, quella del Concilio. A me piacerà riappropriarmi della città, non vorrò mettere barriere tra me e la gente e troverò la giusta soluzione».
Alessandra Turrisi
Giornale di Sicilia 5 novembre 2015
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