Giuseppe Carini, giovane studente di Medicina e volontario della parrocchia di Brancaccio, si trovò una volta a parlare con padre Puglisi delle autopsie alle quali aveva assistito in Facoltà per via dei suoi studi. "Quando toccherà a me - gli disse il sacerdote che era già sotto l'incubo delle minacce della mafia - cerca di starmi accanto, non mi lasciare solo". Una frase che il giovane Giuseppe comprese in pieno solo dopo l'omicidio. E davvero volle partecipare a quella straziante autopsia sul corpo del parroco, come gli aveva promesso. Pochi mesi dopo, Giuseppe e l'amico Matteo Blandina decisero di rispettare ancora di più la memoria e l'insegnamento del sacerdote, infransero il muro dell'omertà e andarono dalla polizia per testimoniare su un omicidio di mafia avvenuto a Brancaccio. Diventato appunto un testimone di giustizia, è stato strappato agli studi. Con una nuova identità segreta, Giuseppe ha iniziato una lunga battaglia per la legalità e i diritti dei testimoni nel nome di padre Puglisi. Ecco una sua intervista in cui per descrivere la sua vita cita lo psicologo Lacan: "In amore si dà ciò che non si ha"...
Ha lasciato l’odore intenso di farina di grano doppio zero, quello del suo pane rimacinato che dura giorni interi. Ha lasciato la sua famiglia, gli studi universitari, i suoi amici, un amore di gioventù, il camice bianco, quello per il quale avrebbe voluto lavorare e faticare per diventare un medico.
La scelta di denuncia, di testimonianza, ha un costo perché “essere testimoni di giustizia significa fare delle rinunce enormi”. Ma “ne vale la pena, le fatiche non per forza portano a rinnegare la propria scelta. Tutto ha un costo”.
È Giuseppe Carini a raccontarsi. Ovvero il testimone di giustizia che, per portare fino in fondo la sua battaglia per la legalità, ha sacrificato l’intera vita. Il suo nome è saltato alle cronache nazionali per aver cercato giustizia contro gli assassini di don Pino Puglisi. Contro insomma coloro che uccisero il parroco arrivato a Brancaccio (quartiere di Palermo), nel 1993, portando una ventata di freschezza e rinnovamento. E in quel cambiamento, in prima linea c’era proprio Giuseppe, allora ventenne studente di medicina che grazie a don Puglisi si avvicinò al mondo dell’oratorio e divenne una figura di riferimento per i più piccoli ragazzini del paese, tra una partita di pallone e l’altra.
Lui, che dal desiderio di divenire “un uomo considerato da tutti” – come racconta nel suo “Il Miracolo di don Puglisi” (Anordest edizioni, 2013) – sacrificò la vita per la legalità e vive, dal 15 settembre 1993 (giorno dell’assassinio del prete), a volto coperto nelle uscite pubbliche e sotto nuove spoglie. Dalle nuove leggi emanate al termine del 2014, e la conseguente assunzione tramite la pubblica amministrazione, muove i primi passi (dalla metà del 2015) verso una nuova vita.
“Dobbiamo pensare di non rimanere uomini senza speranza, perché gli uomini senza speranza sono uomini senza futuro”. Questa è stata l’affermazione di don Puglisi dopo la sua confessione di aver coltivato il desiderio di divenire uomo d’onore che l’ha scossa di più. Da qui ha capito che, sino ad allora, era stato “un uomo senza speranza”. E ora? La speranza c’è?
“La speranza c’è, perché senza di essa non ce l’avrei fatta a sopravvivere, né fisicamente, né psicologicamente. La speranza alla fine è comparsa e cresciuta e, nello stesso tempo, ho avuto la consapevolezza di quanto questa scelta di futuro diverso, per me e tutti gli altri, sia stata non solo una scelta mia come percorso di conversione personale ma anche una scelta di democrazia verso un Paese, per un percorso che non deve essere fatto senza un suo costo.
L’ho fatto con fatica e grave amarezza per l’indifferenza delle Istituzioni ma anche per colpa del movimento antimafia che, sulla questione testimoni di giustizia, negli anni ha taciuto, poi indugiato e questo ha leso il nostro percorso di ritorno a una vita normale, lunghissimo e faticosissimo. Percorso che ora si sta avviando verso quella direzione di normalità. Quando abbiamo contravvenuto alla regola di riservatezza assoluta, ci siamo messi nuovamente in gioco e, da qui, è nata l’Associazione Nazionale Testimoni di Giustizia: abbiamo ricevuto molte critiche per aver violato il programma di protezione e riservatezza, anche per il rapporto con i media. Le Istituzioni hanno scambiato il nostro desiderio come una protesta il cui obiettivo si riduceva a disincentivo e sfiducia, senza comprendere in realtà che, far nascere l’Associazione, per noi era un passo obbligato dettato da negligenza di altri”.
“Non pensavamo di fare antimafia. Non eravamo consapevoli che il nostro impegno quotidiano avesse una valenza di quella portata. Operavamo con strumenti poveri ma quel che contava era l’attenzione verso gli altri” si legge nel suo libro (p.111). Cosa significa, oggi, fare antimafia?
“Si tratta piuttosto di una questione di appello all’esercizio dei diritti dei cittadini e di riappropriarsi la propria dignità: il nostro operato ha avuto quell’impatto perché ogni forma nella quale i cittadini reclamano propri diritti si mette contro chi ha intenzione di mantenere lo status quo con la popolazione povera e ignorante che è utile al sistema, sistema mafia in Sicilia in quel caso. Oggi, come fare antimafia, è complicato dirlo. Preferisco dire cosa non è: non è quello che viene spacciato per antimafia oggi. Ritengo che ci sia un’antimafia da merceria, da bigiotteria, antimafia che secondo me ha perso proprio il senso della parola, tutto viene spacciato per antimafia: in questo momento, così come 10 anni fa, l’antimafia ha ben altre cose di cui occuparsi prima ancora di evolversi in queste forme. Ora bisogna occuparsi di sostenere chi denuncia, commercianti e imprenditori, cosa che non avviene minimamente, non è antimafia se ogni associazione si fossilizza su un settore. Se tu invadi il territorio di quell’associazione, anche in termini di tematiche sociali, succede un casino.
L’antimafia è frammentata, ci sono famigliari vittime di mafia di varie associazioni, imprenditori che hanno denunciato suddivisi, così come i testimoni di giustizia, ognuno ha il proprio cortile, il proprio giardino. Poi c’è l’antimafia borghese, con tessere in tasca e nella testa che non lasciano spazio a nessuno, nemmeno alle vittime. Con la puzza sotto il naso, credono di poter aver la verità nelle mani, sono oracoli.
È giusto che, rispetto alle proprie inclinazioni, ci sia un interesse su un settore o un altro ma questa frammentarietà, nella pratica, si traduce in punto di debolezza. Mentre le mafie, nel momento di difficoltà, mettono da parte le loro divisioni, gli ambiti di specializzazioni nel criminale e agiscono come un fronte unico, come network criminale. L’antimafia dei diritti non riesce a farlo, non mette da parte particolarità e differenze, ognuno è per i fatti propri e anche attraverso questo si è costretto i testimoni a costituire un’associazione: nessuna associazione ha preso seriamente questa storia nostra. Lo si è dimostrato quando la commissione parlamentare antimafia è intervenuta tantissime volte con denunce del nostro stato di abbandono. Ma intanto noi abbiamo perso 20 anni della nostra vita.
Ora basta, ora nessuno parla più a nome nostro e per questo, in situazioni di criticità, l’associazione si scioglierà. Abbiamo fatto approvare due leggi, una al Parlamento e una nella regione Sicilia. Queste due leggi sono state fatte approvare, sono concretamente operative e il 9 aprile 2015 hanno già firmato 10 testimoni giustizia i contratti di assunzione. Ma non ci sono comunicati stampa se non il nostro, seppur sia un gesto di civiltà giuridica, uno strumento fondamentale nelle mani della Magistratura perché, chi vorrà denunciare, sa che comunque vada non può finire in un pozzo nero del programma ma può tornare a una vita normale. E, inoltre, ha la valenza di restituire un corso antecedente al programma di protezione. In tutto questo non è stata scritta una riga da parte degli altri, solo complimenti privati. Noi abbiamo fatto davvero la storia contro la mafia: di fatto abbiamo non completato ma portato a termine l’idea di Giovanni Falcone con il programma di protezione da lui inventato. Se lui fosse vivo oggi avrebbe apprezzato queste due normative fatte approvare in sordina.
La solitudine del percorso fatto da noi è scritta nel libro: è una denuncia allo Stato. Siamo bravi a denunciare le mafie violente ma non a denunciare lo Stato che, di dovere, dovrebbe proteggerci. L’associazione è nata non per voglia di protagonismo ma solo per voglia di normalità. Le altre associazioni non l’hanno voluta sostenere, altre associazioni se ne sono fregate, qui ci sono cittadini che avevano avuto coraggio”.
Quali sono i doveri di ognuno di noi?
“Ognuno ha il dovere di vivere i propri diritti e doveri di cittadinanza, di essere pienamente presente nel contesto in cui vive, informandosi e sporcandosi le mani, come tantissimi giovani e adulti, uomini e donne nel paese che ogni mattina si impegnano nel dare il proprio contributo. Non vivere in ozio e appagati dalle proprie sicurezze economiche e tranquillità, la vita va vissuta. Il morso della vita è questo. Nessuno chiede a chi non ha la sfiga criminale di fare gesti eroici ma chiede di essere consapevole. La conoscenza è fondamentale,conoscere è l’elemento primario per vivere meglio la propria vita per essere davvero un cittadino perché altri non ne abbiano a patire.
Libera il 21 marzo fa bene: citando quei nomi, questi volti e queste storie, ricordano quello che siamo. La Resistenza, le radici storiche scomparse, erano convinti all’inizio che dalla Resistenza sarebbe nato un Paese diverso, migliore. È successo che, quel patrimonio di lotta civile di vita vissuta e sacrificata sulle montagne è stato dimenticato, chi doveva tutelare quel patrimonio lo ha disperso e ci ritroviamo oggi un Paese frammentato, diviso ed egoista. Allora forse la lotta alla mafia può essere un altro tentativo attorno al quale costruire quel Paese”.
Manifestazioni e testimonianze, qual è il loro valore?
“Hanno un valore innato. Lanciamo una pietra sperando che qualcuno la raccolga. Spesso di fronte ad un’Italia così spaccata nei piccoli localismi ed egoismi personali, si rischia di perdersi nella fatica e nella delusione. Purtroppo è il rischio che si corre ogni giorno ma le difficoltà che si incontrano, le amarezze che si vivono, non possono far venire meno il valore della testimonianza, mai. Altrimenti è finita. Anche quanto si è raschiato il fondo bisogna continuare con la schiena dritta e la testa alta. Ciò è possibile nel nuovo Risorgimento ma deve nascere da ognuno di noi. Poi, se verrà condiviso meglio, ma intanto lo facciamo, è la legge morale che ci deve appartenere a prescindere dal fatto che possa esser accolto o condiviso, non si scappa”.
“Oggi si assiste a un totale arretramento: Brancaccio è ancora in mano alla famiglia Graviano” scrive sempre nel suo libro (p. 146). Cos’è significato, allora, l’operato di don Puglisi?
“La speranza c’è ancora e questa situazione è una motivazione ulteriore ad andar avanti sempre, costi quel che costi. Poco importa che loro ancora comandino, reggano il narcotraffico, il traffico delle armi e siano depositari di segreti inconfessabili: il nostro dovere è di sporcarci le mani e impegnarci perché quel quartiere, così come Palermo, la Lombardia e il Paese, devono essere liberati”.
Don Pino è rimasto lì, continuando la sua missione pur consapevole di essere ormai destinato all’assassinio. Da quel momento invece lei è dovuto andare via. Allora, come si può continuare la sua testimonianza mentre Brancaccio è ancora in mano alla mafia? Lei, come gli altri “figli spirituali” di don Puglisi, ve ne siete andati “continuando a proseguire il percorso intrapreso nelle piccole realtà, nulla è andato perduto”. Insomma, da una parte siete diventati testimoni di giustizia, per estendere l’operato e la testimonianza a tutto lo Stato italiano, dall’altra parte Brancaccio è come prima. C’è la speranza, allora, di estirpare questo male, ovunque?
“Brancaccio è il paradigma del Paese intero, è proprio questa la questione. Dobbiamo dare uno sguardo all’uomo, poco importa dove si trova. Non ci sono confini, l’uomo è al centro”.
“Sì, ma verso dove?” Vi chiedeva padre Puglisi, cosa risponde ora?
“È una domanda che ritengo debba rimanere sempre senza risposta per non usare l’alibi delle piccole certezze che abbiamo per dire sono arrivato”.
Molti affermano che è il male a vincere sul bene. Cosa ne pensa?
“Io evito accuratamente di spendere un solo secondo della mia vita o consumare un solo neurone per pensare a questo. Per quanto questo pane possa essere amaro, resterà sempre profumato e fragrante”.
Alla luce della sua esperienza, crede in Dio?
“Qualcuno lo scrive sui ponti delle autostrade che Dio esiste. C’è un bellissimo film di Pieraccioni nel quale un attore, vedendo un gruppo di ragazze, dice: “Ora ho le prove, Dio esiste”. È una domanda la cui risposta non può che essere personale e intima. Secondo la mia esperienza, chi non vede il povero, non vede Cristo, lui stesso era povero. Dio esiste e manifesta il suo amore per gli uomini con il Creato. Infondendo in ciascuno di noi il pensiero folle dell’amore. Lacan, psicologo affermato, dice che in amore si dà ciò che non si ha. È molto semplice dare ciò che si possiede anche se con fatica, ma dare ciò che non si ha è la più grande manifestazione di amore”.
C’è speranza di vera conversione alla giustizia per i mafiosi? O, detto in termini religiosi, c’è spazio per la misericordia?
“Mi chiedo della loro misericordia con se stessi e le loro famiglie. Mi interrogo se possano trovare un domani di misericordia verso se stessi. Ciò presuppone un cammino di conversione che non arriva in automatico con la collaborazione. La collaborazione è l’inizio di un percorso che potrebbe portare, quando ci si mette in discussione, a rivedere la vita in una dimensione etica e umana, ma è un profondo percorso, faticoso e doloroso. Macchiarsi di un crimine terribile come quello dell’assassinio e poi riempire di pagine verbali del Pm non basta”.
fonte: Valentina Colombo
www.SGUARDIDICONFINE.com
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