Il cardinale Angelo Scola in Cattedrale a Palermo, davanti all'altare a forma di spiga di grano che custodisce le spoglie di padre Puglisi |
Da Milano a Palermo 120 sacerdoti sulle orme di don Pino, guidati dal Cardinale Angelo Scola che si dice certo: "Sarà Santo".
Da Milano sulle orme di don Pino Puglisi. E per capire meglio la grandezza e la testimonianza di un sacerdote caduto sotto il piombo della mafia, circa 120 giovani sacerdoti della diocesi ambrosiana, accompagnati dall’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, e dal vicario generale monsignor Mario Delpini, hanno cominciato a conoscere i luoghi in cui visse e operò il martire della Chiesa palermitana.
Cominciando ieri dal luogo in cui riposano le sue spoglie mortali, la tomba custodita in Cattedrale e meta costante di pellegrinaggio, mentre oggi pomeriggio saranno a Brancaccio, nella parrocchia di San Gaetano con don Maurizio Francoforte, nella prima sede del Centro Padre Nostro e in piazza Anita Garibaldi, dove il killer Salvatore Grigoli mise fine alla sua vita terrena, il 15 settembre 1993.
«Don Puglisi è una figura affascinante, perché in un momento come questo di assoluto disinteresse per la vita pubblica e per il bene comune, vediamo come lui abbia dato tutto se stesso, le sue energie per gli altri - osserva don Matteo Missora, dopo avere ascoltato alcune meditazioni sul martirio del sacerdote palermitano -. Oggi nessuno vuole più ascoltare, tutti vogliono farsi sentire, eppure la sua testimonianza è così forte che la ascoltiamo ancora». Ma per conoscere davvero questa figura non bastava leggere i libri e le testimonianze, «bisognava venire qui, nella sua terra – aggiunge don Cristiano Castelli -. Don Puglisi non è un santino antimafia, è un sacerdote che vive pienamente il suo ministero nella letizia, che sa donarsi a Dio e ai fratelli».
Visitano in lungo e in largo la Cattedrale, salgono sui tetti, scendono nella cripta, si fermano per qualche minuto davanti al sarcofago di marmo a forma di spiga, con accanto il volto sorridente di don Pino. E viene naturale per loro intonare il canto «Servo per amore», per pregare davanti a un sacerdote che è stato «un uomo discreto, umile, distaccato, disinteressato, gratuito, che pensava in grande e non ha conosciuto l’asfissia del cuore e della mente – ricorda in un pensiero durante la messa monsignor Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo -. Avremo, noi Chiesa, il coraggio di testimoniare il vangelo della notizia, dell’apertura alla novità di Dio?». La testimonianza di questo martire contemporaneo è fondamentale per la formazione dei giovani sacerdoti, in un percorso curato dall’Istituto sacerdotale Maria Immacolata. Monsignor Delpini, che è anche responsabile della formazione, ne è convinto, perché «noi siamo preti e don Puglisi è un uomo dei nostri tempi conosciuto per quello che ha scritto e fatto».
Per esempio, la sua grande attenzione per le vocazioni, «a cominciare dalla pastorale giovanile che altro non è che pastorale vocazionale, ossia spingere i ragazzi, spesso pieni di paure, di desideri, di mancanza di senso, a capire quale sia la propria vocazione».
Ma anche il suo spiegare chiaramente il valore «anticristiano del sistema mafioso – aggiunge monsignor Delpini -. Don Puglisi ha sottolineato bene questo, ha cercato di sottrarre i ragazzi alla manovalanza mafiosa, non ce lo dimentichiamo». Il programma degli incontri ha previsto anche la celebrazione col vescovo di Cefalù, monsignor Vincenzo Manzella, domani con l’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, e questa sera con monsignor Salvatore Di Cristina, che di Puglisi fu compagno di seminario e amico.
Alessandra Turrisi
Giornale di Sicilia 13 aprile 2016
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«Il martire non sparge il sangue di nessuno, non disprezza la propria vita, anzi in maniera implicita o esplicita perdona il suo carnefice». Ecco cosa ha fatto don Pino Puglisi e perché deve essere portato a modello per i preti di ogni latitudine. Lo dice chiaramente il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano.
Perché ha voluto portare tanti giovani sacerdoti a Palermo, per vedere coi loro occhi dove ha vissuto questo martire?
«Don Puglisi è una grande figura di beato, che presto sicuramente sarà santo, che ha interpretato la santità povera dell’Eucaristia. Tutto questo lo ha fatto dall’interno dello stile normale con cui il prete che si occupa della gente esercita il suo ministero. Questo ha per noi un’attrattiva e un fascino straordinari. Mi ha colpito molto quello che lui dice qualche anno prima di morire, parlando a Trento, sottolineando che il passo tra la testimonianza e il martirio è un passo breve. Il dato è che lui, prima di morire, ha sorriso, come dice il suo stesso assassino. E poi è un santo di grande attualità: il martirio non va ricercato, è un dono che Dio fa agli inermi, ma l’esistenza nostra deve essere quella di un martirio quotidiano, della pazienza, di un’offerta, di un dono totale della nostra vita al Signore e al nostro popolo».
Cosa stupisce di più del suo modo di essere prete?
«A me personalmente colpisce di più la sensibilità della vita ordinaria del prete. Don Puglisi ha fatto tutto quello che il vescovo gli ha domandato, nello stesso tempo usando una grandissima apertura e creatività. E poi a Brancaccio l’incontro col bisogno e la passione educativa con i ragazzi e tenta il dialogo anche con chi poi lo ucciderà. Un uomo così è già totalmente consegnato a Dio ed è un uomo libero dal terrore della morte, segno della sua fede grande nella resurrezione».
Il concetto di martirio cristiano, di don Puglisi, è molto diverso da quello che interpretano i terroristi che si lasciano esplodere.
«È importante confrontarci con un fenomeno relativamente recente che rischia di equivocare gravemente anche il senso cristiano del martirio. Negli ultimi decenni ci siamo ormai abituati a sentir chiamare ”martiri” ad esempio gli ”uomini bomba”, coloro che spesso per motivi religiosi – per lo più di ispirazione islamista – danno la morte a se stessi, per uccidere con tale gesto più persone possibili tra civili inermi. Non è martire colui che utilizza la propria morte provocando la morte altrui, giacché nel suo atto, lucido e folle al contempo, la verità per la quale asserisce di compiere quel gesto, annulla tragicamente la libertà delle persone in gioco. Mentre la croce di Cristo è la massima affermazione della libertà dell’altro, nell’attentato suicida, all’opposto, si vorrebbe affermare la verità senza la libertà, che invece è sempre costitutiva dell’atto testimoniale. L’atto suicida, che semina morte, non può essere atto di testimonianza e di martirio, perché rende se stesso colpevole della morte propria ed altrui».
Don Puglisi ha conosciuto e combattuto la mafia nel quartiere in cui viveva, senza mai essere contro qualcuno.
«È importante il suo stile anche per incidere contro questa piaga che è la mafia; è uno stile nuovo che entra in sintonia con la figura di papa Francesco, uno stile di ascolto nella verità, senza risparmiare una chiarezza di valutazione anche a rischio della vita, nella speranza che ogni uomo possa convertirsi. Padre Puglisi ha creduto in questo e il suo perdono anticipato nei confronti del suo assassino ha prodotto un cambiamento nell’assassino stesso».
Avere la tomba di un martire nella Cattedrale cosa rappresenta per la diocesi?
«È un elemento decisivo della nostra fede. La nostra è una fede nell’incarnazione. È comprensibile che il popolo di Dio abbia il desiderio di venerare nel debito modo le reliquie, di poterle toccare, perché siamo figli di un Dio che ha assunto il nostro quotidiano, che ha amato e sofferto come noi, si è fatto uomo in tutto fuorchè nel peccato».
Quindi non ritiene anacronistico il culto delle reliquie?
«Bisogna aiutare tutti quanti a vivere in termini equilibrati il rapporto con la reliquia, come stiamo facendo in questo anno in relazione al giubileo con l’indulgenza attraverso la conversione e il cambiamento».
AL.TU.
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