Questo il testo della lettera presentata dai vescovi siciliani nella Valle dei Templi il 9 maggio 2018, a 25 anni dall'intervento di Papa Wojtyla. Una dura condanna della mafia delle "pistole e dei colletti bianchi" ma anche un allarme sul rischio infiltrazioni nelle processioni e nelle feste religiose nell'Isola. Spicca la ricerca di un linguaggio proprio della Chiesa per invitare alla conversione i mafiosi come fece San Giovanni Paolo II: convertitevi, è il momento di cambiare vita! Importante anche il riferimento al beato Pino Puglisi e al suo invito al dialogo con la parte oscura di Brancaccio fino all'estremo sacrificio.
Convertitevi!
Lettera dei Vescovi di
Sicilia
a venticinque anni
dall’appello di san Giovanni Paolo II
(Agrigento,
9 maggio 1993 - 9 maggio 2018)
Carissimi,
con questa amichevole lettera ci
rivolgiamo – come pastori delle Chiese di Sicilia – ai fratelli e
alle sorelle che con noi sperimentano la presenza pasquale del
Signore Crocifisso e Risorto e con noi camminano incontro a Lui per
le strade di questa nostra Isola. E ci rivolgiamo anche a tutte le
persone bisognose di lasciarsi toccare il cuore dalla grazia di
Cristo Gesù, oltre che agli uomini e alle donne di buona volontà
che vivono e operano per un progresso pacifico e giusto in terra di
Sicilia.
1.
«Quel grido sgorgatomi dal cuore»
Sono trascorsi
venticinque anni dalla visita pastorale compiuta da san Giovanni
Paolo II in Sicilia nel maggio 1993. In quel suo terzo viaggio
apostolico nella nostra terra, papa Wojtyła
fece tappa nelle diocesi di
Trapani, Mazara del Vallo, Agrigento e Caltanissetta, ovunque
suscitando entusiasmo e ricevendo sempre calorosa accoglienza.
Soprattutto, ovunque e sempre facendo riecheggiare l’annuncio
gioioso ed esigente del Vangelo.
1.1.
Pace per questa terra
Annuncio evangelico,
peraltro, coraggiosamente e sapientemente mirato. Vale a dire non
formulato in termini generici o espresso in astratto, bensì rivolto
proprio a noi siciliani. Un annuncio, perciò, che si modulava –
nelle parole e persino nei toni di volta in volta usati dal papa –
tenendo conto del particolare contesto in cui esso andava risuonando.
Perciò riferendosi alle concrete situazioni – sociali, culturali,
religiose – con cui prendeva contatto e interpretandole alla luce
della Parola del Signore.
L’annuncio del Vangelo
fatto da san Giovanni Paolo II in Sicilia, durante quel suo viaggio,
ebbe un’espressione particolarmente significativa ad Agrigento, a
conclusione della concelebrazione eucaristica tenutasi il 9 maggio
nella Valle dei Templi. Quello scenario suggestivo suscitò in lui
l’impulso a prendere ancora la parola per un ultimo saluto “a
braccio”, al fine di contestualizzare anche l’augurio di congedo
all’immensa assemblea lì radunata, proclamato dal diacono con le
parole del rituale: «Andate in pace». Il papa parlò, dunque, per
prolungare quell’augurio, spiegando come il popolo siciliano doveva
recepirlo e intenderlo: «Carissimi, vi auguro, come ha detto il
diacono, di andare in pace e di trovare la pace nella vostra terra».
A poca distanza dall’antico tempio greco della Concordia, egli
traduceva “in siciliano” l’augurio liturgico della pace «nel
nome del Signore»: «Che sia concordia!».
Si trattò di una
traduzione “storica”. Non perché rievocasse l’antico genio
ellenico che molti secoli prima aveva plasmato la bellezza di quel
sito straordinario in cui s’era celebrata la messa, ma piuttosto
perché riconduceva il senso della pace alle preoccupazioni e alle
speranze che i siciliani sentivano urgenti in quell’ora della loro
storia, travagliata più che mai dalla violenza di matrice mafiosa.
Il papa augurava «concordia in questa terra»: «Concordia senza
morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime».
1.2.
Il ricordo delle vittime
Erano gli anni in cui i
numerosi clan mafiosi, da tempo contrapposti in sanguinose faide per
conquistare il potere all’interno degli ambienti malavitosi,
ritorcevano la loro brutalità omicida anche verso l’esterno,
prendendo di mira chiunque si opponesse loro. Difatti, continuavano a
cadere sotto i colpi della mafia molti leali servitori delle
istituzioni e non pochi coraggiosi esponenti della società civile:
rappresentanti dello Stato, uomini e donne delle forze dell’ordine,
magistrati spesso trucidati insieme a qualche loro congiunto,
sindacalisti, politici, giornalisti, imprenditori e commercianti,
persino giovani e ragazzi coinvolti per vendetta contro i loro
familiari, o talvolta per mera casualità, in quella micidiale
spirale di morte.
I loro nomi costituiscono
una sorta di triste litania, troppo lunga per essere recitata a
memoria. Nondimeno, avvertiamo come un dovere il permanente ricordo
di quelle vittime della mafia e di quegli eroi della legalità, che
hanno offerto un preziosissimo contributo a che la vita di tutti noi
migliorasse. Essi hanno lottato, ciascuno a suo modo, per affrancarsi
e per affrancarci dalla morsa di un potere maligno e abusivo, teso a
ipotecare la vita di intere comunità, a ricattare le coscienze di
tanti e a manipolarne le scelte, a guadagnarsi con perversi
contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti, a
inquinare la politica e la pubblica amministrazione, a frenare lo
sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a
privati tornaconti, a minare in vari modi la libera convivenza, ad
attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza
in un futuro migliore. Un potere capace, finanche, di indurre qualche
ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di
resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo.
1.3.
Un impegno da assumerci
In quel suo discorso,
nella Valle dei Templi, san Giovanni Paolo II mostrò d’essere
lucidamente consapevole di tutto questo, rivolgendosi proprio ai
«colpevoli» e ai «responsabili» della cancrena mafiosa che da
molti decenni ormai toglieva la pace ai siciliani e instaurava nella
nostra terra una falsa e terribile «civiltà della morte»:
E questi che
sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle
loro coscienze tante vittime umane, debbono capire, debbono capire
che non si permette [si legga: non è permesso] di uccidere degli
innocenti.
Dio ha detto una volta:
non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi, qualsiasi umana
agglomerazione, mafia, non può cambiare o calpestare questo diritto
santissimo di Dio!
[…] Lo dico ai
responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio
di Dio.
Parole – queste – proferite dal
papa «nel nome di Cristo Crocefisso e Risorto», per lanciare un
accorato appello alla conversione, in coerente continuità con la
predicazione del Maestro di Nazareth. Ma anche per proporre una
peculiare disamina del fenomeno mafioso e trarne, davanti e in mezzo
al popolo siciliano, le debite conseguenze.
Lo stesso san Giovanni Paolo II,
qualche anno dopo, in Vaticano, incontrando un gruppo di pellegrini
siciliani in un’udienza del 22 giugno 1995, considerò quel suo
monito vigoroso – «Convertitevi!» – come un «grido sgorgatomi
dal cuore». Un grido – continuava a spiegare in quell’occasione
– lanciato non soltanto all’indirizzo dei mafiosi, ma anche per
«fare appello ad ogni sana energia»:
All’approssimarsi del
nuovo millennio, ho invitato più volte tutta la Chiesa a compiere un
coraggioso esame di coscienza, affinché la potenza e la grazia di
Dio possano aprire una pagina nuova nella storia.
Propongo altrettanto a
voi, cari fedeli della Sicilia: voi dovete assumervi il vigoroso
impegno di proseguire nello sforzo di dare alla vostra terra un volto
rinnovato, degno della cultura e della civiltà cristiana che ha
segnato la vostra Isola. Questo ho voluto gridare ad Agrigento.
2.
Il timbro profetico dell’appello
Quel grido – «che mi è uscito dal
cuore ad Agrigento», sottolineò di nuovo papa Wojtyła nel suo
discorso a Palermo, durante il Convegno delle Chiese d’Italia, nel
novembre 1995 – si è prolungato sino ad oggi. In questa nostra
lettera desideriamo riascoltarlo assieme a voi, per lasciarci ancora
interpellare da esso. E per riproporci l’impegno della verifica
alla quale san Giovanni Paolo II richiamò i credenti in Cristo Gesù
che vivono qui in Sicilia.
2.1. La mafia è peccato
Già il papa, del resto, lo diceva
proprio durante il suo saluto del 9 maggio 1993: «Carissimi, non si
dimentica facilmente una celebrazione in questa Valle». Non soltanto
e non semplicemente per la bellezza di quella grande esperienza
ecclesiale, ma anche e soprattutto per la portata profetica di
quell’appello alla conversione, in prima battuta rivolto agli
stessi mafiosi e poi esteso a ogni cristiano desideroso di riscattare
il proprio ruolo nella società in Sicilia: «La mafia – precisava
ancora il papa nell’udienza del 22 giugno 1995 – è generata da
una società spiritualmente incapace di riconoscere la ricchezza
della quale il popolo di Sicilia è portatore».
Con quest’ultima affermazione, san
Giovanni Paolo II forniva un’efficace chiave di lettura del crimine
mafioso. La mafia si configura non solo come un gravissimo reato, ma
anche come un disastroso deficit culturale e, di conseguenza, come un
clamoroso tradimento della storia siciliana. Più precisamente, come
un’anemia spirituale. E, per questo motivo, anche come
un’incrinatura fatale nella virtù religiosa, che finisce così per
risultare depotenziata e travisata.
In questa medesima prospettiva, il
grido che – a partire dalla Valle dei Templi – attraversò tutta
la Sicilia nel maggio 1993, riecheggiando con forza anche nel resto
d’Italia, non soltanto denunciava un’efferata attitudine
criminosa, ma pure smascherava e continua a smascherare un vero e
proprio peccato, cioè un rifiuto gravemente reiterato nei confronti
di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza.
Tutti i mafiosi sono peccatori: quelli
con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti
bianchi, quelli più o meno noti e quelli che si nascondono
nell’ombra. Peccato è l’omertà di chi col proprio silenzio
finisce per coprirne i misfatti, così facendosene –
consapevolmente o meno – complice. Peccato ancor più grave è la
mentalità mafiosa, anche quando si esprime nei gesti quotidiani di
prevaricazione e in una inestinguibile sete di vendetta. Peccato
gravissimo è l’azione mafiosa, sia quando viene personalmente
eseguita sia quando viene comandata e delegata a terzi. Strutture di
peccato sono le organizzazioni mafiose, perché con i loro intrighi e
i loro traffici si rivoltano contro la volontà divina e producono
quello che san Paolo chiamava il «salario del peccato», cioè la
morte (Rm 6,23). La morte fisica, che le azioni mafiose causano
dolorosamente tra gli esseri umani. E la morte radicale, che rimarrà
– nel momento supremo del giudizio di Dio – inconciliabile con la
vita eterna.
2.2. La mafia è incompatibile con
il Vangelo
Il grido di san Giovanni Paolo II,
d’altra parte, si prolunga sino a noi, col suo timbro profetico,
anche perché la mafia continua a esistere e a ordire le sue trame
mortali, estendendole anzi – ormai da tempo – oltre la Sicilia,
nel resto d’Italia e all’estero, procacciandosi ovunque
connivenze e alleanze, dissimulando la sua presenza in tanti ambienti
e contagiandosi a molti soggetti – sociali e individuali – che
apparentemente ne sembrano immuni, trapiantandosi ovunque nel solco
di una pervasiva corruzione.
A quel richiamo franco e severo,
l’organizzazione mafiosa oppose subito alcune reazioni molto
violente: decise di lanciare i suoi minacciosi segnali contro la
Chiesa tramite gli attentati del luglio 1993, a San Giovanni in
Laterano e a San Giorgio al Velabro. E, soprattutto, con l’agguato
in cui cadde – il 15 settembre 1993 – il beato Pino Puglisi,
parroco nel quartiere Brancaccio, a Palermo.
Don Puglisi aveva ben compreso
l’incompatibilità della mafia con il Vangelo e nei suoi confronti
stava realizzando in parrocchia, tra la sua gente e con la sua gente,
una concreta resistenza, evangelicamente ispirata e motivata. Quella
sua resistenza cristiana parve ai mafiosi di Brancaccio un
prolungamento – per loro intollerabile – del grido di Agrigento.
Pochi mesi dopo, il 19 marzo 1994,
anche la camorra diede feroce sfogo alla sua intolleranza nei
confronti di ogni resistenza cristiana, uccidendo don Peppe Diana,
parroco a Casal di Principe, in provincia di Caserta.
2.3. La mafia è una questione
ecclesiale
Il monito di papa Wojtyła innescò,
dunque, una serie di drammatiche conseguenze. Tuttavia, non tutte di
segno negativo. Tra quelle positive spicca la metamorfosi del
discorso ecclesiale sulle mafie, che dal maggio 1993 in avanti s’è
venuta sviluppando in molte Chiese del Meridione d’Italia.
Il papa, ad Agrigento, si era rivolto
direttamente ai mafiosi: a loro aveva indirizzato il suo appello alla
conversione, con loro aveva parlato, senza più limitarsi a discutere
riguardo al fenomeno mafioso. E aveva usato parole inedite, in verità
mutuate dal messaggio biblico e dalla tradizione credente:
conversione, diritto santissimo di Dio, giudizio divino. Riprendendo
poi quell’appello, nell’udienza del giugno 1995, lo aveva fatto
valere anche per tutti i siciliani, per infondere in loro un
rinnovato vigore spirituale.
In questi termini, egli faceva della
mafia una questione anche ecclesiale ed ecclesiologica: sia perché
stimolava la comunità ecclesiale e tutti i suoi membri, nessuno
escluso, a costruire quella che aveva chiamato la «civiltà della
vita» e a compiere un purificatore «esame di coscienza», sia
perché richiamava gli stessi mafiosi – che non sono più veri
cristiani, come ha detto papa Francesco nell’udienza del 28 marzo
scorso in piazza San Pietro, o che lo sono soltanto anagraficamente –
a ritornare al Signore e, quindi, all’esperienza credente e alla
vita ecclesiale.
Effettivamente, la mafia è un problema
che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza
sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi
membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli
che invece se ne lasciano dominare. Ed è un problema che ha dei
contraccolpi anche sull’autoconsapevolezza della Chiesa e
sull’immagine che di sé essa offre, allorché afferma con forza
profetica l’irriducibilità delle opzioni mafiose allo stile
evangelico, oppure quando si distrae e tace o, ancora, quando con un
attento discernimento spirituale riconosce quali migliori figli suoi
coloro che hanno lottato e lottano per la giustizia, fianco a fianco
con chi è stato e resta nella trincea dell’impegno civile e
statale contro le mafie.
3.
Un peculiare discorso ecclesiale sulle mafie
Reputiamo che quanto detto, venticinque
anni fa, da san Giovanni Paolo II ad Agrigento, abbia fondato il
tentativo di riformulare il discorso ecclesiale riguardo alla mafia e
alle altre analoghe organizzazioni criminali che operano in Italia.
Di questo tentativo sono espressione i pronunciamenti pastorali
prodotti dalla Conferenza episcopale italiana e dalle varie
Conferenze episcopali regionali, specialmente nel nostro Sud. Come
vescovi delle diocesi siciliane, grati per l’importantissimo lavoro
già svolto lungo questo delicato crinale dai nostri confratelli,
vogliamo proporre qui alcune annotazioni a tal proposito.
3.1. Rompere il silenzio con parole
nostre
Il rinnovato discorso ecclesiale sulle
mafie, che si è andato configurando negli anni scorsi, in
particolare in Sicilia e nel resto del Meridione d’Italia, ha
progressivamente permesso alla comunità credente, nel suo complesso,
di prendere le distanze dal “silenzio” che pur era stato prima
ambiguamente mantenuto “in pubblico” riguardo al fenomeno
mafioso. E la ricerca storica ci ha messo ormai a disposizione molti
elementi per valutare i motivi e per decifrare le modalità di tale
“silenzio”, aiutandoci a smarcarci da interpretazioni un po’
troppo schematiche o unilaterali e, perciò, sbilanciate in questa o
in quell’altra direzione.
Non intendiamo soffermarci su questa
controversa tematica. Ricordiamo tutti la veemenza con cui il
cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, predicando
nel funerale del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso assieme
alla moglie e all’agente di scorta il 3 settembre 1982, si scagliò
contro la mafia e contro i suoi occulti fiancheggiatori. E ricordiamo
i numerosi altri interventi, suoi e di altri vescovi meridionali,
sulla stridente contrapposizione tra mafia e autentico cristianesimo.
Ciò che preferiamo rilevare è che oggi rischiamo di passare dal
silenzio alle sole parole, specialmente quando dimentichiamo di fare
nostre – come san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci hanno
insegnato e come Francesco continua a mostrarci – le parole del
Vangelo, accontentandoci semmai di ripetere ciò che altri soggetti,
meritoriamente impegnati nella lotta alle mafie, dicono con parole
espressive delle loro specifiche competenze in ambito di volta in
volta giuridico e giudiziario, politico, giornalistico, sociologico.
Privo di un suo timbro peculiare, il discorso ecclesiale riguardante
le mafie rischia così di essere più descrittivo che profetico.
Le condanne pubbliche e le scomuniche
più o meno esplicite, nella società mediatica in cui viviamo, hanno
eco brevissima: giusto il tempo della “notizia” che suscitano.
Poco male, se non passassero inascoltate nelle parrocchie e per le
strade delle nostre città e dei nostri paesi. Non importa che i
media non ne parlino o non ne parlino adeguatamente, o che qualche
commentatore continui a criticare il silenzio “istituzionale”
della Chiesa. Deve piuttosto preoccuparci che il nostro discorso
soffra di una certa inefficacia performativa: cioè non giunga a
interpellare e a scuotere davvero i mafiosi, da parte loro non certo
interessati a leggere i documenti ecclesiali. Deve preoccuparci che
il discorso cristiano sulle mafie sia rimasto troppo a lungo solo
sulla carta e non si sia tradotto per decenni e non si traduca ancora
in un respiro pedagogico capace di far crescere generazioni nuove di
credenti.
Avvalendoci di un lessico peculiare –
del resto innestato con parole più laiche, a cominciare da quelle
che esprimono il rispetto della legalità e il valore del bene comune
–, dobbiamo immaginare una metodologia formativa per piccoli e
grandi, per giovani e adulti, per gruppi e famiglie, nelle parrocchie
e nelle associazioni, con una sistematica catechesi interattiva, il
più possibile “pratica” e “contestuale”, attinente cioè ai
problemi dell’ambiente in cui abitano coloro cui essa è destinata,
per giungere a motivare e a trasmettere stili di vita coerenti al
Vangelo e improntati alla giustizia e alla misericordia. E per
contribuire così, per come ci compete, ai processi di rinnovamento
avviatisi in seno alla società civile.
È – questo – uno sforzo ulteriore
che non si può più rimandare. Lo dobbiamo fare, tutti insieme,
nelle nostre diocesi, anche per mettere il popolo credente nella
condizione di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi: un
omicidio di matrice mafiosa come quello del parroco di Brancaccio può
apparire, agli occhi degli inquirenti e dell’opinione pubblica,
come uno dei fatti di cronaca nera che accadono continuamente nelle
grandi capitali della mafia. Ma, agli occhi di chi crede e legge la
realtà alla luce del Vangelo, un tale omicidio è anche
qualcos’altro, da interpretare – come ha scritto Mario Luzi in un
suo poema dedicato al martire Puglisi – secondo la logica
«inesplicabile della profezia». E l’assassinio del giudice
Rosario Livatino, in servizio presso il tribunale di Agrigento,
ucciso il 21 settembre 1990, può sembrare un omicidio “eccellente”
come tanti altri, ma in verità – agli occhi di chi crede – può
rivelarsi come un’autentica testimonianza martiriale: non a caso,
san Giovanni Paolo II, durante la sua visita alla diocesi di
Agrigento, riferendosi proprio al giovane magistrato, parlò dei
«martiri della giustizia e indirettamente della fede». Sia don
Puglisi, sia il giudice Livatino, erano uomini di poche parole: ma
agivano fattivamente e vivevano in coerenza a ciò che dicevano.
Entrambi sono testimoni esemplari della conversione dalle parole ai
fatti che deve avvenire in seno alla Chiesa.
3.2. Recuperare il senso
dell’appartenenza ecclesiale
L’impegno pedagogico sarà utile,
inoltre, per chiarire il significato della “scomunica” nei
confronti dei mafiosi.
Stiamo attraversando una grave crisi
del senso di appartenenza ecclesiale. Assistiamo allo sdoppiamento
dell’identità del “soggetto appartenente”, il quale nutre
ormai una spiccata tendenza alla pluri-appartenenza o
all’appartenenza trasversale rispetto a diversi e persino
incompatibili “gruppi” o “luoghi” aggregativi. Si fa sempre
più labile, anche in campo ecclesiale, il nesso tra appartenenza e
senso dell’appartenenza, o tra credenza e appartenenza. Vale
a dire che un singolo soggetto può prestar credito a ben precise
“dottrine” e, tuttavia, far parte di gruppi o aggregazioni al cui
interno la vita viene intesa e organizzata secondo modalità del
tutto contrarie a ciò che quello stesso soggetto crede. Si può
dare, perciò, il caso che uno professi il credo cristiano e al
contempo accetti di diventare membro di un movimento settario
alternativo alla Chiesa, magari perché ne ha un vantaggio economico
o anche semplicemente emotivo. L’auto-referenzialità induce a
sottovalutare o a misconoscere la fede confessata e professata, cioè
vissuta e celebrata nella comunità ecclesiale, facendola risultare –
assieme alle sue esigenze e alle sue implicazioni – come una
dimensione secondaria e, al limite, superflua. Ne deriva una sorta di
schizofrenia che lacera la coscienza del cristiano, oggettivamente
“appartenente” alla Chiesa in forza del suo battesimo, ma
soggettivamente non “partecipe” della vita ecclesiale. La fede
perde il suo spessore esistenziale, diventa una presunzione
arbitraria e refrattaria alla verifica comunitaria, si riduce a
qualcosa in cui “si crede di credere”.
Questo può essere il caso anche di chi
si affilia alle organizzazioni mafiose, pur continuando a farsi
quotidianamente il segno della croce e a frequentare la messa
domenicale, oltre che le processioni patronali e le riunioni
confraternali, senza però avvertire in tutto ciò alcuna
contraddizione.
Dobbiamo accettare la sfida –
precipuamente formativa ed educativa – di risvegliare nelle persone
il senso dell’appartenenza ecclesiale, se necessario mettendo in
chiaro che c’è una scomunica de facto che entra “in
vigore” anche a prescindere dalla scomunica de jure:
consiste nell’autoesclusione dalla comunione con il Signore e con i
suoi discepoli, cui si “condanna” chi preferisce incancrenirsi
nel peccato e incamminarsi lungo i sentieri senza ritorno della
corruzione. Se non si aiutano le persone a recuperare il senso
dell’appartenenza alla Chiesa, l’esclusione giuridica dalla
comunione ecclesiale, comminata con una sanzione canonica, rischierà
di essere non compresa – prima ancora che temuta o contestata –
da parte delle persone affiliate alla mafia. Alle quali, invece,
occorre tornare a rivolgere insistentemente – «in ogni occasione
opportuna e non opportuna» (2 Tm 4,2) – l’appello alla
conversione lanciato da san Giovanni Paolo II.
È la conversione la meta verso cui
tutti dobbiamo puntare e verso cui anche i mafiosi devono avere
l’umiltà e il coraggio di muovere i loro passi. Una conversione
sincera, sperimentata in prima persona e in intima relazione con il
Signore. Ma non intimistica, bensì vissuta secondo le regole
penitenziali della Chiesa e i cui frutti di vita nuova siano
inequivocabilmente percepibili e pubblicamente visibili.
Dicendo questo, non temiamo di
sbagliare. Come ci ha ricordato papa Francesco quest’anno –
nell’Ottava di Pasqua, durante l’omelia nella celebrazione
eucaristica della Divina Misericordia –, il Signore «è
misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie». Questo
lieto annuncio di salvezza vale per tutti, nessuno escluso. Vale per
tutti coloro che lo accolgono, confessando la propria miseria umana e
consegnandola alla misericordia divina. Dunque, può e deve valere
anche per i mafiosi ciò che Francesco ha predicato nella seconda
domenica del tempo pasquale: «Quando ci confessiamo accade
l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva
distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì,
il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le
nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose».
Dobbiamo tornare a sperare che ciò sia
davvero possibile, per tutti, anche per i mafiosi. E dobbiamo,
quindi, tornare a fare questo annuncio proprio a loro, sfruttando
ogni buona occasione: nel catechismo agli adolescenti, in cui anche i
figli dei mafiosi devono essere coinvolti, non meno che negli altri
momenti formativi dedicati ai giovani e agli adulti; nella
celebrazione – sempre comunitaria – di sacramenti importanti per
la vita ecclesiale come il battesimo, la prima comunione e la
cresima; nelle omelie durante i funerali delle vittime di mafia, ma
anche – dove e quando sia fattibile – durante le esequie di
persone defunte che sono appartenute alla mafia.
3.3. Valorizzare e purificare la
pietà popolare
Sempre in prospettiva pedagogica, si
staglia davanti a noi anche la sfida della pietà popolare. Tra i
motivi dell’insorgere della mafia, alcuni studiosi hanno annoverato
il totale fallimento dell’evangelizzazione, durante i secoli della
modernità, in Sicilia: qui la prassi pastorale si sarebbe risolta
nella religiosità popolare e sarebbe quindi stata impostata
devozionisticamente, esposta ad usi strumentali e poco attenta alle
esigenze dell’etica comunitaria. Tale spiegazione, pur registrando
opportunamente le strumentalizzazioni della pietà popolare da parte
di molti clan mafiosi locali e le connivenze omertose di alcuni preti
ancorati a una concezione meramente esteriore del vissuto credente,
non prende in debita considerazione la storia di santità “sociale”
straordinariamente fiorita tra Otto e Novecento nella nostra regione.
È un fatto che, dove ha abbondato la presenza negativa di criminali
e mafiosi, ha sovrabbondato nondimeno la presenza positiva di
personalità spirituali che operosamente si sono fatte interpreti
delle implicazioni sociali della fede cristiana, spendendosi con
grande carità per rivendicare il diritto di tutti, specialmente dei
più poveri, a vivere con dignità in questa nostra terra. Anche
quest’altra storia è frutto dell’evangelizzazione in Sicilia. E
pure ai nostri giorni ci sono, nelle nostre città e nei nostri
paesi, persone che vivono esemplarmente il Vangelo, dimostrando che
esso è capace di trasformare in meglio il mondo e di trasfigurare le
cose più brutte in una nuova bellezza. A queste persone, non meno
che ai santi del passato, dobbiamo guardare con attenzione, per
assimilare la loro testimonianza e sentirci spronati a contribuire a
che il Vangelo davvero si riveli luce che illumina di senso la fatica
dei buoni, lievito che dà spessore alla nostra realtà, sale che le
infonde sapore.
È per noi pastoralmente utile
valorizzare le risorse spirituali della pietà popolare, segnalate
anche da papa Francesco nel n. 69 dell’Evangelii gaudium:
«Ogni cultura e ogni gruppo sociale necessita di purificazione e
maturazione. Nel caso di culture popolari di popolazioni cattoliche,
possiamo riconoscere alcune debolezze che devono ancora essere sanate
dal Vangelo: il maschilismo, l’alcolismo, la violenza domestica,
una scarsa partecipazione all’eucaristia, credenze fataliste o
superstiziose che fanno ricorrere alla stregoneria, eccetera. Ma
proprio la pietà popolare è il miglior punto di partenza per
sanarle e liberarle».
Quell’«eccetera» seminato nel testo
appena citato, ci sembra possa rimandare anche ai fenomeni mafiosi.
Non possiamo rassegnarci a veder degenerare le varie forme di pietà
popolare in espressioni di mero folklore, manovrabile in varie
direzioni, anche da parte delle famiglie mafiose di quartiere, in
quest’ultimo caso soprattutto per fini di visibilità e di
legittimazione sociale. Non possiamo tollerare che le festività di
Cristo Gesù, di Maria Madre sua e dei suoi santi degenerino in feste
pseudo-religiose, in sagre profane, dove – nella cornice di subdole
regie malavitose – all’autentico sentimento credente si
sostituiscono l’interesse economico e l’ansia consumistica, e
dove non si tributa più onore al Signore ma ai capi della mafia.
Dobbiamo tornare a preoccuparci e a
occuparci della pietà popolare, interpretandola non solo come fatto
sociale ormai anacronistico, bensì come fatto interno alla vita
della comunità credente, lì dove la religiosità si dimostra
più precisamente pietà popolare, custode di quello che il
Concilio, in Lumen gentium n. 12, chiama sensus fidei,
l’«istinto» credente di ogni battezzato. Dobbiamo riscoprire
l’importanza grande della pietà popolare come esperienza mistica
comunitaria e come riserva di valori da custodire e incrementare per
dare adito a un «nuovo umanesimo mediterraneo», in cui emerga
l’intreccio fra il dirsi divino e la coscienza umana, fra la
tenacia della fede e il vigore dell’ethos, come abbiamo
scritto già nel 2012, nella nota pastorale Amate la giustizia,
voi che governate sulla terra.
4.
Prolungare l’eco dell’appello
Desideriamo far riecheggiare ancora
nelle nostre Chiese, in Sicilia e a partire dalla Sicilia, l’appello
alla conversione lanciato da san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993
nella Valle dei Templi. Vogliamo farlo riecheggiare dentro i nostri
cuori e lasciarlo riverberare nei nostri sguardi e sui nostri volti.
Soprattutto, siamo decisi a incarnarlo nella nostra esistenza
credente, nella nostra prassi pastorale, nel nostro personale e
comunitario impegno civile, nella nostra vita sociale.
4.1. Una parola rivolta ai familiari
delle vittime di mafia
L’eco del grido di Agrigento giunga,
da parte nostra, innanzitutto a voi, familiari delle vittime della
mafia. Condividiamo il vostro profondo dolore. E a voi affidiamo la
nostra gratitudine nei confronti dei vostri figli, dei vostri
genitori, delle vostre sorelle e dei vostri fratelli, delle vostre
mogli e dei vostri mariti, che sono caduti mortalmente per la
violenza – arrogante e feroce – della mafia e dei mafiosi.
Grazie per l’amore che hanno nutrito
verso la Sicilia e verso tutti noi siciliani. Grazie per la fiducia
che hanno riposto nella giustizia: non quella «molte volte macchiata
da interessi meschini, manipolata da un lato e dall’altro», bensì
la «vera giustizia», quella di cui si deve avere fame e sete e per
la quale si deve lottare, giungendo a sacrificarsi per essa, come
scrive papa Francesco nel n. 78 di Gaudete et exsultate.
Grazie per la speranza in un futuro nuovo e migliore, che hanno
custodito nel loro animo e che hanno testimoniato con il loro
impegno, con le loro fatiche, con le loro battaglie, con il loro
lavoro.
Grazie per l’esempio che ci hanno
lasciato in eredità con il loro amore, con la loro fiducia, con la
loro speranza.
4.2. Una parola rivolta alle persone
credenti e di buona volontà
L’eco del grido di Agrigento giunga,
inoltre, all’intero popolo siciliano: a coloro che vivono – pur
fra tante umane debolezze – l’esperienza credente nelle nostre
comunità ecclesiali; ai fratelli e alle sorelle che la vivono in
comunità di altre tradizioni confessionali, in particolare agli
amici evangelici e valdesi che si sono sempre distinti per la loro
vigile coscienza critica di fronte alla protervia mafiosa; a tutte le
persone di buona volontà che condividono con noi e ci testimoniano a
loro volta il valore del bene comune.
La Chiesa è una «complessa realtà»,
come insegna il Concilio in Lumen gentium n. 8. E un profilo
di questa sua peculiare complessità si coglie nel suo essere Chiesa
santa di peccatori. Essa è santa per la presenza dello Spirito
Santo, che la anima dal di dentro e la rende tempio di Dio,
sacramento del Signore. Ma è anche costituita da esseri umani,
sempre bisognosi del perdono divino in quanto pur sempre peccatori.
Per questo la conversione rimane la sua prima vocazione: essa è
chiamata a convertirsi continuamente.
Questa conversione dev’essere
effettiva e concreta: non solo dichiarata a parole, ma anche vissuta
con i fatti. Il beato Pino Puglisi, ucciso dalla mafia proprio
venticinque anni fa, in una catechesi ai giovani di Brancaccio, il 18
febbraio 1993, qualche mese prima della visita pastorale di papa
Wojtyła, diceva che era ormai
giunto in Sicilia il tempo di «rimboccarsi le maniche», di passare
«dalle parole ai fatti», dalle prediche all’azione, di mettere in
atto una «controproposta» rispetto alla «cultura della illegalità»
promossa dai mafiosi, uno «stile di vita» fatto insieme di
aspirazioni civili e ispirazioni evangeliche, di «dignità umana» e
di «amore cristiano». Tempo di iniziare comportamenti rinnovati e
convertiti, che siano «segno» inequivocabile della volontà di
riscatto dalla schiavitù del male e della mafia. Il suo avvertimento
conclusivo è ancor oggi un pungolo per tutti noi: «Se ognuno di noi
fa qualcosa, allora si può fare molto».
4.3. Una parola rivolta agli uomini
e alle donne di mafia
Anche fino a voi, fratelli e sorelle
che vi trovate invischiati nelle paludi della mafia, desideriamo
prolungare l’eco del monito di san Giovanni Paolo II:
«Convertitevi!». A voi – che siete stati i primi destinatari di
quell’appello profetico – ci rivolgiamo, con tono sereno e serio,
per ribadirvi pure l’invito rivolto da papa Francesco, in
un’udienza del 21 febbraio 2015, a chi come voi vive nel male e nel
peccato, compiendo gravissimi reati e violando le giuste leggi umane
oltre che i comandamenti divini: «Aprite il vostro cuore al Signore.
Il Signore vi aspetta e la Chiesa vi accoglie».
In quest’ultimo appello dovete
risentire ciò che già il beato Pino Puglisi diceva in una sua
omelia del 20 agosto 1993, nella chiesa parrocchiale di San Gaetano,
a Palermo: egli, rivolgendosi immediatamente ai mafiosi di
Brancaccio e idealmente a tutti i mafiosi, vi ricordava che anche voi
siete battezzati e, perciò, «figli di questa chiesa»: «Mi rivolgo
ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato.
Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che
vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al
rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza
civile».
Noi, pastori delle Chiese di Sicilia,
facciamo nostre queste parole del martire don Puglisi e le ripetiamo
a voi: accoglietele come un invito alla conversione e come un
annuncio di speranza cristiana valido sempre e per tutti.
5.
Un’ultima parola da rivolgere tutti insieme
al
Signore giusto e misericordioso
Signore nostro, Tu
sei tutto: Tu sei giusto!
Tu sei più di
tutto: Tu sei misericordioso!
Ti chiediamo il
perdono:
per le nostre
lentezze, per i nostri ritardi,
per le nostre
distrazioni, per i nostri silenzi.
«Convertici, o
Signore,
e noi ci
convertiremo» (Lam 5,21).
Ti chiediamo la
luce:
cioè la capacità
di vedere e di decifrare
la realtà in cui
viviamo,
di discernere tra
il bene e il male,
tra la verità e
l’errore, tra la vita e la morte.
Ti chiediamo il
coraggio:
per vivere la
giustizia e scegliere la santità.
Ispira le nostre
decisioni, rafforza la nostra voce,
sostieni le nostre
azioni,
rendi fecondo il
nostro impegno.
Signore, Tu sei
tutto e più di tutto.
Tu sei giusto e
misericordioso!
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