Affollata platea alla Sala del Tempio di Adriano a Roma per la presentazione del volume "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" (Bur-Rizzoli) del giornalista Francesco Deliziosi, organizzata dalla Regione Lazio. L'autore ha ripercorso i suoi 15 anni di amicizia con il sacerdote-martire di cui il Papa ha voluto commemorare i 25 anni dal martirio. Ricordi personali, dai banchi di scuola agli anni di Brancaccio, per ricostruire uno stile pedagogico originale, in tre fasi (l'ascolto, la vita comunitaria, la scelta della vocazione). Un metodo che, trasferito in un quartiere sotto il tallone della mafia, stava trasformando e liberando i cuori dal giogo dell'oppressione. Per questo la mafia ebbe paura e lo eliminò. Oggi, a 25 anni dalla morte, - ha sottolineato Deliziosi - dobbiamo analizzare la concretezza di don Pino, i suoi atti profetici eredità preziosa per tutta la chiesa (basti ricordare che cambiò il percorso delle processioni per evitare inchini sotto certi balconi e che sbarrò la strada ai politici collusi del quartiere).
Mons. Corrado Lorefice ha collegato la visita del Papa a tutta una serie di omaggi che Bergoglio sta tributando a sacerdoti scomodi ma che hanno indicato alla Chiesa italiana una strada ben precisa: Lorenzo Milani, Primo Mazzolari, Zeno Saltini, Tonino Bello. E poi ha collegato l'azione di Pino Puglisi al vento del Concilio che egli seppe accogliere in pieno. Il volume di Deliziosi - ha sottolineato Lorefice - è un lavoro prezioso di raccolta di documenti e testimonianze che permette di entrare in contatto direttamente col pensiero del Beato.
Mons. Lorefice e Deliziosi |
Commosso l'intervento del procuratore Giuseppe Pignatone che ha ricordato gli anni di piombo vissuti a Palermo durante la guerra di mafia con centinaia di morti.
Da sinistra Giampiero Cioffredi, Nicola Zingaretti, mons. Lorefice, Deliziosi e il procuratore Pignatone |
Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha tributato un omaggio alla memoria e al coraggio di don Pino, ricordando una serie di attività per la legalità poste in essere dalla sua amministrazione in collaborazione con l'Osservatorio presieduto da Giampiero Cioffredi. Da ultimo ha annunciato l'intitolazione a don Puglisi di una struttura sportiva con un campo nella zona di Montespaccato. Ecco l'intervento integrale del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.
Da sinistra il giornalista Vincenzo Morgante neo direttore di Tv2000, il procuratore Pignatone, mons. Lorefice e l'autore del libro Francesco Deliziosi |
Ringrazio dell'invito che mi ha spinto a leggere il
libro di Francesco Deliziosi e, in questo modo, a conoscere meglio Padre
Puglisi, 3P come affettuosamente veniva chiamato e come viene ricordato.
Naturalmente il cuore del libro, che è la vita e il
pensiero di un prete cattolico proclamato Beato, verrà trattato dagli altri
relatori.
Io vi parlerò di una serie di ricordi, di pensieri, emozioni che il libro ha suscitato in me che in quegli anni, dalla fine degli anni ‘70 al 15 settembre 1993, data dell'omicidio, vivevo e lavoravo a Palermo.
Io vi parlerò di una serie di ricordi, di pensieri, emozioni che il libro ha suscitato in me che in quegli anni, dalla fine degli anni ‘70 al 15 settembre 1993, data dell'omicidio, vivevo e lavoravo a Palermo.
La prima sensazione che la lettura ha fatto rivivere è
l’oppressione, (ed è ancora un eufemismo), in cui si viveva a Palermo.
La cifra di più di 1000 morti e l'elenco infinito di
vittime estranee alle cosche mafiose, appartenenti a tutte le categorie della
società civile, e in primo luogo dei servitori dello Stato e degli esponenti
delle Istituzioni, quelli che noi riassumiamo - con involontaria ingiustizia per
difetto - nei nomi di Falcone e Borsellino, non è sufficiente per far sì che chi
per sua fortuna non c'era capisca che cosa fosse Palermo in quegli anni.
La storia della vita e della morte di padre Puglisi,
riassunta nelle prime 170 pagine del libro, rende un'idea, dal microcosmo di
Godrano prima e di Brancaccio poi, di questa violenza incombente e senza
limiti, di questa offesa continua alla dignità umana che a padre Puglisi fanno
dire “Chi usa la violenza non è un uomo,si degrada da solo al rango di animale”
(pag. 503). Con una definizione che sembra voler aggiungere qualcosa di più
concreto, di più immediatamente percepibile, al concetto di scomunica. (Pag.
154).
E di questa minaccia imminente, di questo rischio
della vita tanti erano consapevoli: persone comuni e persone più esposte per il
lavoro che facevano o il ruolo che ricoprivano. Lo erano Falcone e Borsellino,
lo erano Piersanti Mattarella e Pio La Torre, lo era Padre Puglisi, che si
preoccupò di non esporre a pericolo i suoi amici, quelli che gli erano stati
affidati dal Padre (Gv. 17,8).
Deliziosi ricorda le parole di p. Puglisi dopo le
minacce “Si, è giusto fare e dire queste cose. Ma ora lasciatele dire e fare a
me. Io non ho moglie e figli. Non intromettetevi”.
E di quei rischi eravamo consapevoli tanti altri che,
per un caso o - per chi crede - per un disegno della Provvidenza, non siamo
stati colpiti dalla violenza mafiosa.
Nel libro ho trovato una definizione felice di questo
stato di cose assurdo, che ha investito per più di venti anni la vita di
milioni di persone in tutta la Sicilia. Francesco Deliziosi parla, a
proposito degli ultimi mesi a Brancaccio
prima dell'omicidio, di “due realtà parallele”: da un lato l'escalation delle
minacce e degli atti di violenza, dall'altro i giovani e i tanti parrocchiani
“che quasi volevano scacciare il clima di intimidazione, impegnandoci nelle
tante iniziative e portando avanti una normalità ormai impossibile” (pag.160).
Ecco io, riandando con il pensiero a quegli anni,
penso che tanti, tantissimi, hanno cercato di portare avanti, a Palermo e in
Sicilia, una ‘normalità impossibile'.
Proprio perché la situazione era questa io credo che
sia giusto ripetere in ogni occasione che noi, cioè lo Stato italiano, ha
sconfitto quella mafia, la Cosa nostra corleonese, la mafia delle stragi, la
mafia che aveva sfidato lo Stato pretendendo di trattare da una posizione di
superiorità.
Una sfida che è durata troppo a lungo, che è costata
troppe vittime e troppi sacrifici, ma che è stata vinta senza leggi
eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei codici.
Anzi l'omicidio di padre Puglisi, il 15 settembre
1993, è, credo, l'ultimo dei delitti eccellenti, termine orrendo che uso solo
per esigenze di sintesi.
E il delitto di Brancaccio, giustamente sottolinea Deliziosi, insieme alle bombe piazzate proprio dai mafiosi agli ordini dei Graviano a San Giovanni (“cuore della Roma cristiana”, secondo la definizione del cardinale Ruini) e a San Giorgio al Velabro il 27 luglio 1993, rappresentano una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche settimane prima, il 9 maggio (pagg.43-44).
E il delitto di Brancaccio, giustamente sottolinea Deliziosi, insieme alle bombe piazzate proprio dai mafiosi agli ordini dei Graviano a San Giovanni (“cuore della Roma cristiana”, secondo la definizione del cardinale Ruini) e a San Giorgio al Velabro il 27 luglio 1993, rappresentano una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche settimane prima, il 9 maggio (pagg.43-44).
Queste parole che Deliziosi riporta (pag. 28)
colpirono profondamente i mafiosi perché denunziavano direttamente una delle
ipocrisie chiave nella falsa rappresentazione che le mafie danno di sé: quella
di essere una vera religione, coerente e compatibile con quella cattolica,
ancora così importante nelle nostre regioni.
E alle parole di papa Wojtyla seguiranno quelle dei
vescovi siciliani nel 1994 “Mafia e Vangelo sono incompatibili … … la mafia
appartiene al regno del peccato” (Pag. 45), e
poi molte altre prese di posizione fino alla formale scomunica da parte
di Papa Francesco nella piana di Sibari.
E quelle parole i mafiosi le ricordavano ancora 12 anni dopo. Appena due giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II, uno dei grandi boss di Cosa Nostra diceva (c'è l'intercettazione) “Poverino che era. A parte quella ‘sbrasata’ (sparata, n.d.r.) che ha fatto quando è venuto qua. Una sbrasata un pochettino pesante per i siciliani in generale”.
E quelle parole i mafiosi le ricordavano ancora 12 anni dopo. Appena due giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II, uno dei grandi boss di Cosa Nostra diceva (c'è l'intercettazione) “Poverino che era. A parte quella ‘sbrasata’ (sparata, n.d.r.) che ha fatto quando è venuto qua. Una sbrasata un pochettino pesante per i siciliani in generale”.
Neanche la morte aveva placato il risentimento dei
‘padrini’
Naturalmente la vittoria processuale, se così si può
dire, sulla mafia corleonese è frutto anche di una battaglia culturale che è e
che sarà decisiva per la vittoria su tutte le mafie.
E su questo punto cruciale l’esempio di padre Puglisi
rimane di assoluta attualità.
Intanto come egli lucidamente diceva “Dobbiamo aiutare il bambino, il preadolescente, anche l'adolescente, perché forse lì ci dobbiamo fermare, perché con l'adulto è molto difficile … Aiutarli ad avere senso della propria dignità, a capire qual è il senso della propria vita … non facendo discorsi filosofici … ma vedendo i gesti normali della vita che si vanno facendo con un altro stile, con garbo e rispetto reciproco. Vedere che nel gioco ci sono regole da seguire, che non è giusto barare e chi bara perde la stima degli altri".
Intanto come egli lucidamente diceva “Dobbiamo aiutare il bambino, il preadolescente, anche l'adolescente, perché forse lì ci dobbiamo fermare, perché con l'adulto è molto difficile … Aiutarli ad avere senso della propria dignità, a capire qual è il senso della propria vita … non facendo discorsi filosofici … ma vedendo i gesti normali della vita che si vanno facendo con un altro stile, con garbo e rispetto reciproco. Vedere che nel gioco ci sono regole da seguire, che non è giusto barare e chi bara perde la stima degli altri".
E aggiungeva “Io ci credo a tutte quelle forme di
studio, di protesta, di corsi perché questa è la diffusione di una cultura
diversa, perché la mafiosità si nutre di tutta un'altra cultura, la cultura
dell'illegalità” (pag. 63).
E ancora. “Non dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si deve chiedere come fosse un favore”.
E ancora. “Non dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si deve chiedere come fosse un favore”.
Parole ancora attuali, e non solo a Palermo.
E a questo proposito mi tornano in mente le parole di
Paolo Borsellino che invitava a parlare comunque, in ogni occasione, della
mafia perché la mafia cerca il silenzio, il nascondimento, la disinformazione,
come dimostra in ogni parte d'Italia l'esperienza attuale.
E infatti Deliziosi ricorda che uno dei fratelli
Graviano, i padrini/padroni all'apice della loro potenza, autori in prima
persona delle strage di via d'Amelio e di quelle del 93, dopo un’omelia di
padre Puglisi, avvicina il viceparroco chiedendogli “C'è la mafia a Brancaccio?
Ma dov’è ‘sta mafia? Voi l’avete vista mai? Chi sono questi mafiosi?”
E io ricordo le analoghe parole di un grande boss
calabrese “Ma che è la mafia? Cosa che si mangia?”. E molti altri si potrebbero
citare!
Quelle di P. Puglisi non erano solo parole vane, ma parole che generavano effetti inaccettabili
per i mafiosi.
Lo confermano i collaboratori di giustizia con
dichiarazioni che spiegano le ragioni dell'omicidio.
“Il prete era una spina nel fianco. Predicava,
predicava, prendeva i ragazzini e li toglieva dalla strada” (Giovanni Drago,
pag. 38).
“I picciotti seguivano questo prete e non venivano a
seguire i discorsi di Cosa nostra” (Salvatore Cancemi, pag. 38).
E lo stesso diceva Bagarella “Predica tutto il giorno …
Prende i ragazzi e gli dice di non mettersi con i mafiosi” (pag. 51).
Naturalmente padre Puglisi non era un illuso. E la sua
frase più famosa, quella che dà il titolo al libro, “se ognuno fa qualcosa,
allora si può fare molto”, segue l'affermazione piena di realismo con cui mette
in guardia i suoi amici “le nostre iniziative devono essere un segno. Non è
qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un'illusione che non possiamo
permetterci”.
A queste parole di Padre Puglisi io vorrei affiancare
quelle di due altri grandi siciliani.
Andando a ritroso:
Giovanni Falcone: “Si può sempre fare qualcosa”
dovrebbe essere scritto sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
Piersanti Mattarella, in un discorso ai giovani: “Non
vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre e
impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli
onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le
cose”.
Aggiungendo poi che per potere chiedere agli altri la
politica, che Paolo VI -è bene
ricordarlo- ha definito la più alta forma di carità, deve avere “le carte in regola”.
E ancora padre Puglisi. “Ciò che importa è incontrare
Cristo, vivere come lui, annunciare il suo amore. Portare speranza e non
dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona,
siamo i costruttori di un mondo nuovo” (pag.22).
Come dice lo storico Andrea Riccardi, “Mattarella e
Puglisi rappresentano due storie diverse, combattono la mafia con strumenti
differenti, in quadranti diversificati. Ma c'è una forza di speranza nella loro
azione che germina dal terreno cristiano. Entrambi manifestano la speranza che
si può cambiare il mondo, pur quando sembra impossibile. Ma per cambiarlo, non
insegnano ad altri e partono da sè: da una vita intensa, profonda, dedicata,
che non pone limiti al servizio, nemmeno quello della salvezza della propria
esistenza”[1].
E a questo punto Riccardi, che ricorda anche le parole
di Giovanni Paolo II al corpo diplomatico, nel 2003, di fronte alla guerra in
Iraq, “Tutto può cambiare. Dipende da ognuno di noi. Ognuno può sviluppare in
se stesso il proprio potenziale di fede…E’ dunque possibile cambiare il corso
degli eventi…”, si chiede se non si tratti di mera utopia, se alla fine per
Mattarella come per Puglisi non si possa dire che si tratta di vite sprecate
per realizzare sogni impossibili.
Al di là della risposta della fede, che riguarda la
coscienza di ognuno e che si basa sulla parabola, cara a padre Puglisi (pag.
532), del chicco di grano che se non cade e marcisce non da frutto, anche in
una logica laica gli esempi di Piersanti Mattarella e di padre Puglisi, uniti a
tanti altri, hanno portato frutto.
Non solo per quella che ho definito la sconfitta
processuale della mafia corleonese, e credo che nessuno dubiti che le
condizioni di oggi di Palermo e della Sicilia siano oggi ben diverse, e
migliori, di quelle di allora, ma anche sul piano – decisivo - della crescita
culturale.
Cito questa volta uno studioso non cattolico, Isaia
Sales, che ha messo in rilievo che oggi è cambiata la percezione della mafia
nella pubblica opinione, specie nella società civile meridionale. Fino a non
molto tempo fa ‘mafia’ non coincideva affatto con ‘criminalità’; si poteva
essere mafiosi senza sentirsi né essere considerati delinquenti.
Oggi non è più così. Nessuno più oserebbe parlare di
una ‘mafia buona’ o definire la mafia ‘un normale modo di comportarsi’.
Ecco, io - che ho vissuto quei tempi in cui tutto
questo avveniva - credo che si tratti di un cambiamento di fondamentale
importanza, determinato certo dalle
stragi e dalle migliaia di vittime, ma anche dall'esempio positivo di tanti, a
cominciare naturalmente da quello, eroico fino al martirio, di padre Pino
Puglisi.
[1]) A. Riccardi,
Presentazione al volume di G. Grasso “Piersanti Mattarella. Da solo contro la
mafia”, pag.13, Edizioni S. Paolo,
Cinisello Balsamo, 2014.
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