mercoledì 5 settembre 2018

SAVAGNONE: PUGLISI, IL PRETE CHE ASCOLTAVA LA GENTE. LA CHIESA SPESSO NON LO SA FARE

Da sinistra Giuseppe Savagnone, Giuseppe Castronovo, Francesco Deliziosi



Un libro che ridà voce a don Pino Puglisi, quella voce che i suoi assassini volevano spegnere. Ripercorrere i suoi scritti raccolti nel volume "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" è un modo per ravvivare la memoria e alla fine chiedersi: cosa posso fare io per essere degno del suo sacrificio?
E' la domanda che ha rivolto il professore Giuseppe Savagnone agli intervenuti alla presentazione del volume il 3 settembre scorso alla libreria Tantestorie di via Ariosto a Palermo. Era presente l'autore del libro, Francesco Deliziosi, il magistrato Nicola Aiello. Ha moderato l'incontro il titolare della libreria Giuseppe Castronovo. Ecco l'intervento del professore Savagnone.




Giuseppe Savagnone

Vorrei cominciare col dire che questo è un libro diverso dagli altri scritti su padre Puglisi, perché contiene una miniera di discorsi, relazioni, riflessioni dello stesso don Pino e consente di mettersi in contatto diretto con lui. E’ insomma, quasi un libro “di” Puglisi, più che su di lui. Perciò potrà costituire un punto di riferimento per la ricerca futura.

Un prete del piano terra.

Il libro contiene un ritratto dell’umanità di don Pino quale poteva fare solo uno che l’aveva non solo conosciuto, ma frequentato a lungo, da amico e da discepolo. (pp.12-13). Era un prete del piano terra, quello a contatto con la gente. Mentre spesso accade che la Chiesa ufficiale è quella del piano nobile che vive di documenti ufficiali, di convegni, di grandi discorsi che non arrivano alla gente comune. E invece don Pino proprio alla gente comune prestava attenzione, prestava ascolto.

Non un eroe e neppure un assistente sociale: un prete

Non era un eroe. Era “soltanto” un prete che prendeva sul serio la sua missione, al punto da identificarsi con essa. Come Cristo.
Qualcuno ha detto: «Guai alla terra che ha bisogno di eroi». Neppure la Chiesa ne ha bisogno.  Però quelli che la fanno crescere sono i santi. E questi, anche se per la loro canonizzazione si richiede il possesso di “virtù eroiche”, le esercitano spesso in modo molto diverso da come si aspetterebbe il “mondo”: nella semplicità del dono senza riserve del proprio tempo e delle proprie forze, nella continuità della fatica quotidiana, nella libertà interiore dall’ambizione e dalla sete di successo. Padre Puglisi – dai testi qui raccolti emerge chiaramente – era così.
Per lui essere presbitero non era un’attività, un mestiere. Era un dono, fatto a Dio prima che agli uomini, ma che si manifestava nella sua totale disponibilità a questi ultimi.

L’obbedienza oltre il protagonismo

E lo faceva non esclusivamente in nome proprio, quasi dimostrando, implicitamente, la propria superiorità rispetto agli altri presbiteri meno “bravi” e motivati di lui, ma come uno dei tanti preti della Chiesa di Palermo. Non era un “battitore libero”, non era un contestatore, non era un audace “progressista” ai limiti dell’ortodossia. E’ andato dove il suo Vescovo lo ha mandato e in nome di lui, come ogni parroco dovrebbe fare, e ha guidato la comunità in sintonia con lui, senza mai credersi vescovo o papa della propria parrocchia. Ha sempre obbedito, intendendo l’obbedienza come va intesa, e cioè non come una passiva sottomissione, magari piena di repressa amarezza, ma come un libero dialogo in cui si espongono le proprie ragioni (ed eventualmente le proprie critiche) ai superiori, senza però mai volersi sostituire ad essi e accettando che, alla fine del confronto, è a loro che Dio dà il carisma della decisione.
In tutto questo, non c’è stato nulla di “straordinario”. Don Pino Puglisi  è  stato un prete tremendamente “normale”. Niente che potesse attirare l’attenzione dei giornali o della televisione. Niente che lo mettesse in luce, rendendolo famoso o facendogli fare carriera. Egli non è stato mai sotto i riflettori e non ha fatto altra carriera che quella del suo sacrificio. Ma forse è proprio questa oscurità la sua segreta grandezza.

Il rapporto con la mafia: martire “in odium fidei”

E' stato beatificato perché martirizzato «in odium fidei». Cosa vuole dire? C'è una sorta di portata religiosa della mafia. Il boss Leoluca Bagarella ha detto più di una volta a un suo aiutante, poi “pentito”: «Io ho la possibilità domani mattina di decidere se una persona dovrà vedere o meno il sole (…) Tu lo capisci che io sono simile a Dio?».
E uno studioso come padre Francesco Michele Stabile ha osservato: «La mafia è una forma di ateismo perché colloca un uomo – o un gruppo di uomini – come detentore della totalità del potere e del sapere. In altri termini, non accetta che vi sia un’istanza più alta al di fuori di essa (…) Uno solo ha il diritto di decidere, di agire (…) Ma questo è contro il vangelo, contro la dignità della persona umana, contro la libertà dei figli di Dio». 

Oltre il ritualismo da una parte, il secolarismo dall’altra



Don Pino si è battuto per la speranza delle persone, tutte intere. Questo gli ha permesso di sfuggire alle logiche unilaterali che a volte vedono il prete appiattirsi su modelli sociologici impropri: di funzionario-burocrate, o di assistente sociale, o di leader sindacale, o di combattente dell’anti-mafia. Ma lo ha anche liberato dal rischio, non meno grave, di restare chiuso in un ritualismo senza riferimenti alla vita reale, o in un intimismo spiritualistico che rifugge dalla complessità e dalla problematicità dell’impegno concreto.
La storia del suo lavoro a Brancaccio è esemplare. Ha lottato per la scuola media e per le missioni popolari, per bonificare le strade malfamate e per risanare i cuori feriti.


Il primato del Vangelo

Sì, il Vangelo. La fonte della spiritualità di Pino Puglisi è stata sempre  la Parola di Dio. Non per nulla aderiva ad un movimento che dell’annuncio del Vangelo fa, fin nel nome,  la propria specifica missione (la Presenza del Vangelo). Egli stesso, in un testo che viene citato più avanti, racconta di come la sua consuetudine confidente con Gesù sia nata solo dopo aver avuto un contatto vivo e diretto con la Sacra Scrittura. Le testimonianze dicono che la portava sempre con sé anche nelle gite in campagna o in montagna con i suoi ragazzi. Perché il Verbo di Dio che ha creato l’universo è lo stesso Gesù che ha camminato per le strade del mondo e che è morto in croce per salvarci.


Un educatore, capace di rapporto personale

Sapeva che se non si formano i giovani tutto il resto è inutile. E la mafia lo ha temuto per questo.
Realizzava l’accompagnamento personale. Coloro che sono cresciuti col suo aiuto raccontano che sapeva ascoltare. Oggi che quasi nessuno, nelle nostre comunità, lo fa più, misuriamo l’importanza di una simile disponibilità dal vuoto che il suo venir meno ha prodotto. Siamo in una società dove chi vuole essere ascoltato non va più in chiesa, ma dallo psicologo. Un motivo ci sarà. E come stupirsi, allora, se – nell’eclisse della vecchia “direzione spirituale” – tanti giovani crescono senza punti di riferimento, sbandati umanamente e spiritualmente? Don Pino instancabilmente ascoltava. È l’essenza di quello che più opportunamente potremmo chiamare oggi “accompagnamento spirituale”, che non è fare predicozzi, ma innanzi tutto stare vicino a qualcuno e fargli “da specchio” affinché, oggettivando i suoi problemi, possa fare chiarezza dentro se stesso.

Maestro di preghiera perché pregava

3P, come lo chiamavano scherzosamente, pregava. Il rapporto segreto con Dio era la sua forza, la sua risorsa, il suo futuro. Non poteva fare a meno della celebrazione della messa quotidiana, anche se non la imponeva ai ragazzi che formava. Può sembrare ovvio, per un prete, e purtroppo non lo è.  Le sue battaglie,  anche quelle più “terrene”, hanno portato sempre la traccia profonda di questo riferimento alla Trascendenza, mai puramente nominale, mai di etichetta, ma vissuto momento per momento, anche nelle situazioni più convulse. Nel libro tutto questo viene descritto, Puglisi «si alzava all’alba per pregare» e fu un maestro di preghiera.

Maestro di pensiero e di cultura perché leggeva e  pensava

Nel libro si legge ancora: "E, alla fine della giornata, esausto si addormentava sulla poltrona mentre leggeva" .
Era un prete senza conto in banca, con le tasche vuote e la casa (popolare) piena di libri. Nella casa di 3P al momento della morte c’erano più di tremilacinquecento volumi. A questi vanno aggiunti quelli che tuttora sono custoditi al Centro vocazioni (circa trecento, per lo più di pastorale giovanile) e quelli dati in «prestito permanente» agli amici.
Il testo sottolinea molto l’amore di padre Puglisi per i libri, non in forza di una passione di bibliofilo o di un astratto intellettualismo, ma per la consapevolezza del ruolo che essi possono svolgere nella crescita intellettuale e spirituale delle persone, dei giovani in primo luogo. Non si tratta di contrapporre la lettura ai nuovi mezzi di comunicazione, né tanto meno di demonizzare questi ultimi. La civiltà della scrittura non si è sostituita, ma integrata a quella, più antica, dell’oralità. Perché non dovrebbe accadere lo stesso, oggi, con quella multimediale, rispetto alle precedenti?  Il problema non sono YouTube e Facebook, ma l’unilateralità di un approccio che spesso ne esclude altri, insostituibili, come sono, appunto, i rapporti personali e la lettura. Dicevo prima, per quanto riguarda i primi, del rarefarsi del dialogo nelle nostre parrocchie. E mi chiedo in quante di esse oggi si ha cura di mantenere una biblioteca di libri da prestare ai ragazzi per aiutarli a riflettere, a capire…
Nel volume di Deliziosi si legge infatti che questi libri li prestava a dei ragazzi per insegnare loro a leggere.


Un maestro di impegno perché testimoniava e insegnava il servizio agli altri

Quello di don Pino non era un vago spiritualismo. E ai ragazzi insegnava, oltre che a leggere il Vangelo e a pregare, a “sporcarsi le mani” nel servizio concreto alle persone più deboli e povere.

Una catechesi fondata sulla riflessione antropologica: i campi-scuola

Non partiva dalla fede – spesso più immaginata che reale – per impartire formule preconfezionate. Partiva dai problemi dei giovani. «Per gli adolescenti una domanda su tutte: “ Che senso ha la vita?”» (p.386). Il Vangelo è una risposta, ma l’interesse per ciò che annunzia  esige che si siano poste e domande.

 In conclusione, è già un segnale positivo che in un pomeriggio così caldo è arrivata tanta gente in una libreria per sentir parlare di un libro. Chiediamoci allora, tornando a casa, cosa posso fare io per essere degno del sacrificio di un martire, cosa posso fare io per somigliare a don Pino?



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