di Francesco Deliziosi
Il giudice Rosario Livatino sarà proclamato beato. La Congregazione vaticana per le Cause dei Santi è arrivata a questa conclusione e Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto. La motivazione della beatificazione sarà la stessa di don Pino Puglisi: il magistrato è stato ucciso "in odium fidei". Per far tacere la sua fede. Come il sacerdote, diventerà quindi un martire della Chiesa cattolica.
La causa di beatificazione è passata attraverso la raccolta degli scritti di Livatino, delle testimonianze di familiari e amici, l'esame di interventi e comportamenti del magistrato ucciso dalla mafia nel 1990. Dopo la fase diocesana ad Agrigento, in cui il postulatore è stato don Giuseppe Livatino, l'incartamento è passato in Vaticano dove l'iter è stato curato e portato a termine da mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro. E' lo stesso postulatore che ha completato la causa di don Pino Puglisi.
Per Bertolone "Livatino, laico esemplare e giudice stimatissimo, svolge una rigorosa attività professionale, tenendo davanti agli occhi i Codici normativi e quell’altro grande Codice che è la Bibbia. I mafiosi consideravano, perciò, la sua condotta cristiana un pericolo, anche perché egli rappresentava, soprattutto per i giovani del territorio, un motivo di emulazione" (intervista a interris.it). Importante il riferimento a Giovanni Paolo II: “Penso all’omelia tenuta dal Papa, il 9 maggio 1993, in cui, dopo aver appena incontrato i genitori del giudice Livatino nella curia di Agrigento, usò parole molto forti contro i mafiosi, invitandoli alla conversione. Morte di mafia, quella del giudice Livatino, ma non casuale; piuttosto logica conseguenza di un impegno per la legalità che portò lo stesso San Giovanni Paolo II, poi testualmente ripreso da Papa Francesco, a definirlo ‘martire della giustizia ed indirettamente della fede’. Nella sua celebre condanna della mafia nella Valle dei Templi di Agrigento, assolutamente non prevista, il Papa si lasciò stimolare dall’esempio di Rosario, che un giorno aveva scritto: Al termine della vita non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili”.
Fondamentali le attestazioni unanimi della fede di Livatino, una luce che pervadeva il suo lavoro di magistrato e che si irradiava anche sui piccoli gesti quotidiani come la sigla STD che apriva tutte le sue agende: lettere che si riferiscono, come è stato ricostruito, alla frase latina "Sub tutela Dei". Il che equivale a mettere sotto la tutela di Dio l'umiltà e le radici del lavoro quotidiano.
Livatino era anche consapevole del rischio della vita, svolgendo in maniera retta e lucida il suo lavoro di magistrato nell'Agrigentino dove in quegli anni aveva preso vigore e potere la "Stidda", l'organizzazione criminale che con metodi mafiosi aveva sfidato e soppiantato la vecchia mafia locale. In Livatino va anche evidenziato il rispetto cristiano per l'altro - anche se accusato dei peggiori delitti. Ciò è documentato dall'uso del saluto agli imputati nelle aule di giustizia da parte del magistrato, pur nella assoluta correttezza dell'applicazione delle leggi.
Dimostrazione di questa coerenza di fede nella giustizia sono le sue ultime parole. Già ferito, mentre gli assassini lo inseguono nei campi per dargli il colpo di grazia, Livatino esclama: "Picciotti, che vi ho fatto?". Come a dire, io ho semplicemente fatto il mio lavoro, perché mi odiate a tal punto?
Commenta mons. Bertolone: "È un lamento profetico del giusto, che viene malvagiamente ucciso. Affidandosi completamente al Signore, egli, braccato dai killer lungo la scarpata, non manifestò ostilità verso gli assassini, anzi si rivolse a loro con quelle parole che, in seguito, susciteranno rimorso in uno dei killer. Erano parole profetiche, perciò percepite come affermazioni di rettitudine e di spirito di sacrificio, verbalizzazione estrema del martirio di una persona che lavorava totalmente per gli altri, intesi come creature sempre amate da Dio, anche se piegate dalla delinquenza e dalla criminalità. Livatino testimoniò con il sangue e confermò con la vita il Vangelo che viveva. Certe cose possono farle solo i santi o gli eroi: Livatino era entrambe le cose".
Negli anni trascorsi dopo il delitto, è emerso anche il racconto di una guarigione che sarebbe dovuta a una preghiera di intercessione rivolta a Livatino. Questo episodio avrebbe potuto far propendere la Postulazione per un percorso di beatificazione tradizionale. Invece si è preferito percorrere la via che ha portato al riconoscimento del martirio. Come per don Pino Puglisi. Non un "miracolo", una guarigione inspiegabile dal punto di vista medico, ha spalancato le porte della Beatificazione ma la dimostrazione che la vita - e la morte - del sacerdote ucciso a Brancaccio e di Rosario Livatino sono state un dono di Dio. Per entrambi è stato acclarato un sacrificio consapevole che è un insegnamento per la comunità che ha ricevuto queste presenze destinate a diventare nella storia un punto di riferimento per la crescita nella fede.
Come per don Pino Puglisi, anche per Livatino non è stato semplice dimostrare l'odium fidei degli assassini mentre erano molteplici le testimonianze sulla loro fede. Queste ultime, da sole, non sarebbero però bastate per dimostrare l'esistenza del martirio. Per diradare i dubbi, è stato allora utilizzato un metodo basato anche sulla raccolta degli incartamenti giudiziari arrivati a sentenza definitiva e sull'esame dei verbali dei collaboratori di giustizia.
In modo da mettere in luce un aspetto fondamentale per questo genere di cause e cioè il "punto di vista" del persecutore. In sostanza il movente del delitto. Don Pino Puglisi non sarebbe diventato martire se fosse stato ucciso per una vendetta privata o un singolo gesto giudicato uno "sgarro" dalla mafia palermitana o perché i boss di Brancaccio si sentivano minacciati nei loro interessi economici. E' stato dimostrato dalla Postulazione che il movente era ben più alto: don Pino viene messo a tacere perché il suo insegnamento instancabile sta risvegliando le coscienze. La predicazione del Vangelo a Brancaccio assume le connotazioni di una liberazione dal giogo della cosca. Egli rimette il Padre al posto del Padrino. Viene individuato come un pericolo dai mafiosi, e odiato per questo, in quanto interpreta il suo ministero sacerdotale come una missione irrinunciabile.
Sette anni dopo la conclusione della causa per don Pino (maggio 2013) ora anche Livatino percorre la stessa strada. E la sua Beatificazione apre anche interessanti prospettive teologiche. Negli atti raccolti dalla Postulazione emerge, attraverso alcune testimonianze di collaboratori della giustizia, che i mafiosi decisero di assassinarlo perché consapevoli che si trattava di un giudice integerrimo. Non solo: era un giudice che andava a messa, che non nascondeva la sua fede e per questo non era possibile "avvicinarlo" o "ammorbidirlo" con i soldi né tantomeno fargli paura con le minacce. Da vivo Livatino veniva beffeggiato e insultato dai mafiosi come "il santocchio". Una derisione che in realtà rivela l'odium fidei del clan verso il magistrato. Da eliminare perché santo, perché la fede lo rafforza e lo rende un ostacolo insormontabile.
Si verifica quindi la contrapposizione nei fatti di due realtà: da un lato la sopraffazione, la violenza, il disprezzo del debole, l'arroganza e l'odio della mafia, di cui è ormai acclarata l'essenza anti-cristiana e incompatibile con il Vangelo. Dall'altra il cristiano che alimenta la propria fede nel Vangelo e applica giorno per giorno il metro della carità e della giustizia.
Attraverso la beatificazione prima di don Pino Puglisi e ora di Rosario Livatino la Chiesa attesta quindi che se si uccide un cristiano che applica la carità e la giustizia non solo si infrange il comandamento di non uccidere ma si agisce contro tutto ciò che è il Vangelo di Cristo, e la fede in lui. Non solo un sacerdote può quindi essere beato e martire, ma anche il magistrato, il politico, l'imprenditore, il poliziotto, il giornalista che nell'umile e quotidiano servizio al proprio lavoro trova la forza nella fede di resistere alla corruzione, alla violenza, alle intimidazioni della mafia o del potere tout court. Fino al sacrificio della vita e all'effusione del sangue.
Ecco colmato allora quel divario che - tra gli osservatori laici - ha suscitato più di una diffidenza per la beatificazione di Livatino. Non c'è nessuna forzatura da parte della Chiesa ma anzi un'apertura teologica di grande prospettiva. Basta guardare al lungo elenco delle vittime della mafia per capire cosa potrebbe riservarci il futuro.
E quanta strada ha percorso la Chiesa stessa nel suo cammino di crescita nella valutazione dei pericoli costituiti dalle organizzazioni criminali, facendo piazza pulita dei silenzi e delle sottovalutazioni del passato. Concludiamo con queste parole di monsignor Bertolone (da un articolo sulla Gazzetta del Sud): "Quella che, fino a non tanti anni fa, veniva da molti definita la Chiesa del silenzio, è diventata sempre più, anche grazie al martire Livatino e come lui e prima di lui del beato Puglisi, la Chiesa che parla, che interpella, che invita al rispetto delle leggi degli uomini e di Dio, che ascolta e vede e, proprio perché vive in mezzo agli esseri umani, li invita tutti a non abbandonare mai il Vangelo".
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