La tomba di don Puglisi in cattedrale a Palermo |
In memoria del giudice Rosario Livatino e ricordando anche don Pino Puglisi, i vescovi della Sicilia hanno rivolto un messaggio a tutti i fedeli. Per ricordarli e anche per fare autocritica: non siamo ancora all'altezza del loro esempio, della loro eredità. Ecco il testo integrale
MESSAGGIO DEI VESCOVI DI SICILIA
In occasione della Beatificazione di Rosario Angelo Livatino
Amati figli e figlie delle Chiese di Sicilia, il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra! L’ha benedetta in uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità. L’ha benedetta nella sua giovinezza, che la forza della fede e gli ideali del Vangelo hanno trasfigurato di una bellezza straordinaria, impregnandola di amore per il bene comune, di passione per la verità e di sete della giustizia. L’ha benedetta nella sua professione di magistrato, esercitata coraggiosamente come missione laicale al servizio del Regno e della Storia, tanto dentro le aule pubbliche dei tribunali quanto nei meandri più nascosti del cuore umano, che egli ha saputo attraversare con discrezione e fermezza per garantire la difesa della legalità e tentare finanche la redenzione di chi ha avuto l’ardire di infrangerla.
L’ha benedetta nella testimonianza del suo martirio, con cui egli ha seguito fino in fondo le orme del Maestro che, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Il 21 settembre del '90 segna infatti il momento culminante di un cammino che coincide con la sua stessa vita e che procede decisamente nello stile della Pasqua: un cammino in cui la logica dello “scambio”, propria del clientelismo che rende schiavi dei poteri forti di turno, è soppiantata — passo dopo passo — da quella del “dono”, che si compie nella gratuità incondizionata attraverso il passaggio obbligato della croce.
Oggi il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra nella sua beatificazione, con la quale offre a noi e a tutti un modello nuovo e dirompente di santità: un modello insolito, che aggiunge ai canoni tradizionali del concetto di santità i connotati dei «santi della porta accanto», con la loro attualità e la loro concretezza, ma soprattutto con l’originalità della loro specifica missione, vissuta coerentemente per diventare più umani in se stessi e più fecondi per il mondo .
Dal Beato Rosario Livatino, consegnato oggi alla storia come il primo magistrato laico martire in odium fidei, impariamo che la santità ci appartiene in forza del battesimo e che siamo chiamati a declinarla in qualsiasi modalità, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione, per arrivare dovunque ci sia un residuo di umanità che attende di essere raggiunto e riscattato. Dal Beato Rosario Livatino, annoverato oggi insieme al Beato Pino Puglisi nella lunga schiera di profeti e martiri del nostro tempo e della nostra terra, impariamo che la santità ha il sapore della speranza che non si arrende, della coerenza che non si piega e dell’impegno che non si tira indietro, perché ogni angolo buio del mondo — compreso il nostro — abbia l’opportunità di rialzarsi e guardare lontano. Già nella lettera che vi abbiamo indirizzato in questo stesso giorno di tre anni fa, nel venticinquesimo anniversario dello storico appello lanciato da San Giovanni Paolo II alla Valle dei Tempi di Agrigento, abbiamo accostato il Parroco Puglisi e il Giudice Livatino, indicandoli come «testimoni esemplari della conversione dalle parole ai fatti che deve avvenire in seno alla Chiesa» .
Oggi — potendo accostare le due figure non solo nella memoria della nostra terra, ma anche nella venerazione del nostro popolo — intendiamo ribadire l’urgenza di questa conversione, quale eredità congiunta che essi ci consegnano. È l’eredità di chi ha trovato il coraggio della libertà, squarciando il silenzio della connivenza e decidendo di parlare chiaramente, non solo con parole tecniche mutuate dai linguaggi umani, ma soprattutto con la parola del Vangelo. Con questo tratto che li ha accomunati, pur nella diversità del loro stato di vita e nella specificità del loro ambito di azione, i due Beati Martiri — il Parroco e il Giudice — hanno parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie. E così hanno contribuito ad avviare il processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso, ma anche di quello rivolto direttamente agli uomini e alle donne che vi aderiscono: processo che il “grido del cuore” di Giovanni Paolo II ha poi formalmente fondato, come abbiamo scritto nella lettera del 2018.
Questi due discorsi non si possono interrompere né si possono disgiungere. Non si possono interrompere, perché tacere è la prima strategia del male. Ce lo insegna la storia della nostra Isola, troppo spesso macchiata di sangue innocente proprio a causa dei silenzi di chi avrebbe dovuto parlare e invece ha taciuto; ma ce lo insegna, in fondo, l’intera storia umana, a partire dalla voce del sangue di Abele che grida a Dio dal suolo, mentre Caino continua a far finta di non sapere dove sia suo fratello (cf. Gen 4,9-10). I due discorsi, inoltre, non si possono disgiungere. Limitarsi a parlare di mafia senza tentare di raggiungere i mafiosi rischia di ridursi alla condanna e alla presa di distanza, che sono necessarie ma non bastano; d’altro canto, spingersi a parlare con i mafiosi senza una riflessione seria e comunitaria sulla mafia rischia di esporre al suo fascino ammaliante e al suo potere manipolatore.
Per questo nella lettera del 2018 abbiamo segnalato che, oltre a «prendere le distanze dal “silenzio”» occorre dare al discorso ecclesiale sulle mafie il suo «timbro peculiare», per evitare di renderlo «più descrittivo che profetico» . Ecco l’eredità di Livatino, di Puglisi e di innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati agli onori degli altari, ma che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e anche nella nostra Sicilia! Purtroppo dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità. Il 19 aprile 1992, tra l’omicidio del Giudice Livatino e la visita del Papa, mentre in tutta la Sicilia si consumavano i più efferati delitti di mafia, la Chiesa Agrigentina ha pubblicato il documento Emergenza mafia. Un problema pastorale, a firma del Consiglio Pastorale Diocesano. Dopo una ricostruzione storica volta a individuare i due aspetti complementari del fenomeno — l’organizzazione criminale e la diffusa mentalità — il documento passava in rassegna la responsabilità personale e collettiva del silenzio e della connivenza, i segnali per riconoscere la mentalità mafiosa come pratica disumana e antievangelica e il dovere della testimonianza e della profezia nella comunità cristiana oggi . Da questa consapevolezza dobbiamo ripartire, considerando che in questi trent’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme — meno appariscenti e per questo anche più pericolose — per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali e a confondere le coscienze. Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanee ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei Martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza.
Agrigento, 9 maggio 2021
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