Rosario Livatino |
Mons. Michele Pennisi
Arcivescovo di Monreale
In un documento del secondo secolo la “Didachè” i cristiani sono invitati a contemplare il volto dei santi e a nutrirsi dei loro insegnamenti. Il Beato Rosario Livatino è forse la più bella figura di laico cristiano impegnato tra le vittime della mafia siciliana, che all’integrità della fede cattolica, ha associato una fedeltà che si è fatta impegno civico e sociale fino al martirio. Egli ha raggiunto la santità attraverso una vita di impegno civile e professionale, tipicamente laicale.
La sua beatificazione ha suscitato una grande eco: non solo per la figura in sé, certo molto nota e apprezzata fin dal giorno uccisione, quanto per il fatto che, almeno in epoca recente, è la prima volta che una decisione di questo genere riguarda un magistrato nell’esercizio del suo dovere, come da alcuni è stato subito rilevato. Nel processo canonico, la convinzione che si trattasse di martirio è maturata gradualmente durante l’ascolto dei testimoni, fino a indurre i promotori della causa a richiedere, come avvenne anche per don Pino Puglisi, il passaggio da un processo per l’accertamento dell’eroicità delle virtù a un processo per un caso di martirio. Durante il processo è emerso che il “martirio formale” subìto da Rosario Livatino si fonda su una vita ordinaria nella quale ha esercitato le virtù della fortezza, della giustizia e della carità.
Il collegamento tra la giustizia e la carità lo portò all’impegno civile per la promozione della legalità e dell’onestà. Egli per affermare gli ideali della giustizia e della legalità ha pagato con il sacrificio della vita il suo impegno di lotta contro le forze violente del male. Egli fu ucciso da esponenti della stidda con il consenso di Cosa nostra in odio alla fede, perché la mafia, anche se si ammanta di manifestazioni esteriori di religiosità è radicalmente atea perché al posto di Dio adora gli idoli del denaro e del potere, come ha scritto recentemente papa Francesco che nelle mafie di ogni forma ”svela l’intrinseca negazione del Vangelo, a dispetto della secolare ostentazione di santini, di statue sacre costrette ad inchini irriguardosi, di religiosità sbandierata quanto negata”.
Agli occhi dei mafiosi delle varie correnti locali Livatino appariva inavvicinabile e incorruttibile proprio in ragione della sua condotta, che con chiarezza si vedeva scaturire direttamente dalla sua fede cristiana. «Era inflessibile, ma non era mai cattivo o ingiusto», dirà un testimone. I suoi persecutori odiavano Cristo, esplicitamente riconosciuto e disprezzato nell’incorruttibile condotta del giudice Livatino. Lo denigravano, per questo, come “santocchio”. Rosario Livatino, al momento di entrare in magistratura aveva chiara coscienza della missione che si assumeva. Nella decina d’anni di esercizio della professione, la determinazione nel seguire quella che si stava sempre più prospettando come una specifica chiamata si è fatta sempre più netta. Livatino riconosce gli interessi mafiosi in quegli ambiti dove non c’era allarme sociale, ma anzi compiacenza: i finanziamenti pubblici, l’abusivismo edilizio, gli affari dell’imprenditoria più disinvolta e compromessa.
Per lui tutto questo era questione di vita o di morte, ma prima ancora di vita vera e di fede limpida. Livatino riuscì a ritrovare una sintesi tra religione e diritto che non appare scontata, come dimostra una sua conferenza: «Cristo – egli affermò – non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano» (Conferenza tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986, in Fede e diritto, ). In altre parole, non c’è piena giustizia senza amore.
Il 17 giugno 2014, parlando ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura, Papa Francesco ha ricordato anche la figura di Rosario Livatino che, ha affermato il Pontefice, ha offerto «una testimonianza esemplare» dello stile di giudice auspicato dal Papa e dalla società. Lo stile di giudice «leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana». Papa Francesco: «In questo modo, con queste convinzioni, Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge» (Discorso ai membri del Centro studi “Rosario Livatino”, 29 novembre 2019). Chi ha studiato i diari di Rosario Livatino – giudice, ma prima ancora uomo e credente – attesta di incertezze, di sfoghi spontanei, di lacerazioni interiori e di silenzi che ce lo rendono ancora più umano, vero, vicino. Cristiano convinto e maturo non voleva essere un eroe, ma compiere semplicemente il suo dovere coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una e profonda fede cristiana. L’aver avuto sul suo tavolo il Vangelo e il Crocifisso non erano segni di un devozionalissimo bigotto, ma perenne provocazione al suo compito di operatore della giustizia.
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