Il carisma di educatore dei giovani, il metodo preventivo, l'allegria, il rifiuto dei titoli ecclesiali...tanti i punti di contatto tra Don Bosco e Don Pino Puglisi che celebrò la prima messa proprio nella chiesa intitolata a San Giovanni Bosco in via Messina Marine 259 a Palermo. La famiglia all'epoca abitava in quella strada al numero 109, è la chiesa dove il giovane Pino trascorse gli anni dell'adolescenza fino alla vocazione che avvertì a 15 anni. Domenica 20 marzo 2022 si è tenuto un incontro di approfondimento su questi temi. Il parroco don Giuseppe Calderone ha introdotto il momento di riflessione, condotto dal giornalista Francesco Deliziosi, ex allievo, amico e biografo del sacerdote ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993.
Citazioni e documenti alla mano, il giornalista ha dimostrato come il giovane Puglisi abbia studiato e approfondito l'insegnamento di Don Bosco, continuando a tenerlo presente come un faro per la sua missione sacerdotale sia durante il seminario che negli anni successivi. Anche durante il periodo di Brancaccio alcune scelte del sacerdote-martire per recuperare i giovani del quartiere sembrano chiaramente ispirate all'esempio di Don Bosco.
Su iniziativa e ideazione di don Calderone pochi giorni prima nella chiesa di San Giovanni Bosco è stato inaugurato un dipinto (di Nicoletta Militello) che raffigura Don Puglisi negli anni giovanili e al momento del martirio. Sullo sfondo le due chiese: San Giovanni Bosco e San Gaetano a Brancaccio.
Ecco il testo della relazione del giornalista.
di Francesco Deliziosi
Buongiorno e buona domenica a tutti. Grazie per essere intervenuti e in particolare grazie a don Giuseppe che in questi anni è stato certamente tra le persone che hanno sempre tenuto i fari accesi su don Pino Puglisi. Mi fa quindi davvero piacere essere qui per approfondire un tema importante e fare luce su un periodo fondamentale della vita del Beato.
La parrocchia di San Giovanni Bosco è la chiesa dell’infanzia e della formazione cristiana di Giuseppe Puglisi.
La famiglia Puglisi, originaria di Brancaccio, durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, era sfollata nel 1943 a Villafrati. Rientrata a Palermo, nel 1945, prima ancora di abitare nella casa popolare di in piazzale Anita Garibaldi dove il sacerdote fu ucciso il 15 settembre del 1993, si stabilì per tanti anni al civico 109 di via Messina Marine. E il giovane Pino frequentò la parrocchia San Giovanni Bosco da quando aveva otto anni fino ai sedici quando entrò in seminario lasciando il magistrale De Cosmi dove aveva frequentato i primi due anni (aveva già sentito la vocazione di fare il maestro...).
Presso la parrocchia, il giovane Giuseppe si inserisce nell’Azione Cattolica, svolge il servizio di ministrante servendo all’altare e si forma cristianamente. Qui riceve la cresima, il 4 luglio 1955, e chiede al parroco don Calogero Caracciolo di fargli da padrino (era già seminarista). Importante in questo periodo di formazione pure la figura della mamma Giuseppina che aveva alimentato sempre la speranza di poter offrire un figlio al Signore.
A lei un tuffo al cuore l’aveva dato una visita a San Giovanni Bosco di Ernesto Ruffini, che dal ’46 era arcivescovo a Palermo. Il cardinale aveva intravisto Pino attorniato dai bambini della parrocchia e a bruciapelo gli aveva chiesto: «Perché non ti fai prete?». Rispettosa ma laconica la risposta: «Almeno per ora non ho questa intenzione». Don Caracciolo seppe preparare il terreno per la semina senza accelerare i tempi.
Così lo ricordava don Puglisi anni dopo: «Era un uomo di grande cultura e per quell’epoca dimostrava una libertà di pensiero non comune, soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza della Chiesa dai politici. Agrigentino, aveva cominciato lì la sua attività seguendo la via del grande don Luigi Sturzo. Aiutò a costituire delle casse rurali per sostenere i contadini e fondò anche un piccolo giornale. A Palermo insegnava latino e greco al liceo del Gonzaga e aveva diretto anche un istituto, il San Rocco».
Don Puglisi rievocava in questo modo un episodio illuminante dell’adolescenza che risale probabilmente a maggio del 1953 (campagna elettorale per le politiche del 7 e 8 giugno). Ascoltiamo le sue parole dalla trascrizione di un'audiocassetta
«Un giorno arrivano in parrocchia due signori. Uno dice che è nipote di un onorevole molto influente. “Lei sa, reverendo, che mio zio è un uomo benemerito, che ha fatto tante cose durante questa prima legislatura. E noi abbiamo visto che il suo quartiere è povero, che la casa canonica è da completare, che al secondo piano mancano le finestre…”.
«Padre Caracciolo, capita l’antifona, li interrompe subito, anche se con gentilezza: “Sappiate che io non faccio campagna elettorale per nessuno, quindi non insistete. Io dico ai miei parrocchiani di votare secondo coscienza, ma senza dare nomi, anche se me li chiedono”. «Eravamo nel ’53» osservava 3P raccontando l’aneddoto «e già questa risposta era straordinaria rispetto a certe abitudini. Ma c’è dell’altro.
Uno dei due non si dà per vinto e continua: “Reverendo, però si tratta di un caso particolare. Noi infatti abbiamo pensato di dare qualcosa per la sua parrocchia”.
E prende un libretto di assegni. Io ero lì, ragazzino, e ho guardato incuriosito quella strisciolina di carta. Negli anni Cinquanta era davvero una rarità.
Quel tipo comincia a scrivere e io conto uno due tre quattro cinque zeri, una cifra enorme. “Allora, reverendo, prima degli zeri ci mettiamo l’uno o il due?”
«A questo punto padre Caracciolo diventa tutto rosso e li caccia via urlando: “Non abbiamo più niente da dirci. Quella è la porta, andatevene!”».
A questo proposito c'è da ricordare che don Puglisi diceva sempre di essere "allergico ai politici". E a Brancaccio strappava davanti a tutti i facsimili elettorali che arrivavano a San Gaetano. Non permise mai che le sue parrocchie diventassero la grancassa elettorale di qualcuno. E aggiungo che il candidato dei facsimili fu poi eletto, ma anche, successivamente, arrestato e condannato per mafia. Don Puglisi che a Brancaccio c'era nato, sapeva bene cosa si nascondeva dietro certe campagne elettorali...
Per la vocazione la goccia che fece traboccare il vaso cadde nell’animo di Pino alla fine di una messa in cattedrale, un giorno di primavera del 1953. Il giovane, quindicenne, aveva accompagnato i ragazzini della parrocchia. Salutò monsignor Francesco Guercio, assistente diocesano dell’Azione cattolica. E quello: «Ma ci hai mai pensato a farti prete?». Stavolta una risposta diversa sgorgò dal cuore. Il suo "sì" definitivo al Signore.
Sarà il parroco Caracciolo a presentare ai superiori del Seminario di Palermo il giovane Giuseppe e a prepararlo per gli esami di ammissione con l’aiuto dell’allora seminarista Giacomo D’Amico.
Don Caracciolo sostiene, insieme alla famiglia Puglisi, le spese degli anni del seminario. Giuseppe è ordinato sacerdote il 2 luglio 1960 presso il santuario Madonna dei Rimedi a Palermo.
Presso la parrocchia di San Giovanni Bosco celebra la sua prima messa da presbitero e don Caracciolo organizza un momento di festa al termine della celebrazione.
Nella sua formazione cristiana e negli anni del seminario Giuseppe Puglisi ha come punti di riferimento il parroco ma anche e soprattutto San Giovanni Bosco, così come testimoniato dai suoi stessi appunti e scritti che ci sono arrivati dopo la morte. Il suo compagno di seminario, mons. Salvatore Di Cristina, ricorda tra l'altro che il metodo pedagogico di Don Bosco era oggetto di studio in quegli anni appunto al seminario di Palermo.
Agostina Aiello, per tanti anni a fianco di padre Puglisi come assistente sociale missionaria, racconta che, pur non essendo un salesiano, egli "si sentiva discepolo di don Bosco", infatti partecipava, quando poteva, agli incontri di formazione e prima di andare le confidava: “Dai figli di don Bosco c’è sempre da apprendere”.
Tra le sue carte fino alla morte, Puglisi conservò tanto caro un quaderno di quegli anni giovanili, in cui aveva appuntato circa 170 frasi tratte da testi sacri, scritti di santi e autori greci e latini. E, non a caso, il primo pensiero è proprio di don Bosco: «Sacerdote! Datore di cose sacre, anello di congiunzione tra Dio e l'uomo, fiaccola posta sul moggio, pioniere che apre la strada del Regno dei cieli». Ancora di don Bosco, riportava in questo quaderno anche uno spunto operativo, che tenne bene a mente nel suo lavoro con i giovani a Godrano e a Brancaccio: «La ginnastica, la musica, le passeggiate sono efficacissimi mezzi. Essi giovano alla moralità e sanità».
Sul valore educativo dello sport e dell'attività fisica don Puglisi aveva le idee chiare: giocava anche a calcio e abbiamo delle sue foto bellissime.
Negli anni di Brancaccio il cortiletto del Centro Padre Nostro divenne infatti subito un “campetto” di calcio. E in tema di “attività sportive” ecco un aneddoto raccontato dall’amico Enzo Scalia: «Arrivammo all’ora esatta dell’appuntamento a Brancaccio. Ma, seduti davanti a lui, al Centro, notammo il suo sguardo preoccupato. Sofferente per qualcosa. Improvvisamente si alzò, ci disse: aspettate, tra poco ritorno. E andò oltre una porta, dietro di lui. Io e mia moglie ci chiedemmo che fosse successo. Anche noi ci recammo verso quella porta, la aprimmo e… lo vedemmo, coi pantaloni arrotolati sopra le scarpe, che giocava a pallone con due-tre bambini! Ci disse, notandoci, che dovevamo scusarlo, ma c’erano quei bambini in giardino che attendevano la maestrina del catechismo. Ma che questa tardava. E non gli piaceva che restassero abbandonati a sé. Sapemmo, dopo, che aveva tanto insistito con le loro madri, per strapparli dalla strada e fargli frequentare un regolare corso di catechismo, importantissimo per loro, in quel quartiere... Ecco, questa era la sua Carità. Al servizio perenne degli altri».
Lo scritto più significativo di Puglisi su don Bosco è pure degli anni giovanili e consiste in una sorta di scaletta manoscritta, senza data ma ideata probabilmente per un’omelia o una relazione sul Santo. E' facile sentire l’eco di un programma di vita e di educatore che Puglisi approfondì nei vari incarichi, fino all’estremo sacrificio, affrontato anche per non rinnegare questi principi e cercare di salvare i bambini di Brancaccio dal pugno di ferro della mafia.
Puglisi commenta un pensiero di Don Bosco, che lui farà proprio in tutta la sua vita: “Da mihi animas, coetera tolle”: Dammi anime, prenditi il resto. Ci spiega Don Pino: “Tutta la vita di San Giovanni Bosco si può raccogliere qui; qui è il segreto, la forza, la direzione della sua incommensurabile attività e della sua efficacia. Egli concepiva la sua vita come un apostolato senza confini e senza indugi per conquistare le anime. Egli fu un gran conquistatore d'anime: per questo egli viveva”.
E ricordo che sul cruscotto della sua auto padre Puglisi teneva una immaginetta con la scritta: la missione più importante di tutte è edificare l'uomo. "Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere”. Questo il giudizio che don Luigi Ciotti esprime su questa vocazione pedagogica nella prefazione alla mia biografia di padre Puglisi.
Ma veniamo al cuore del parallelo. Il carisma di educatori che avevano entrambi i sacerdoti, fondato su quello che don Bosco chiamava il metodo preventivo.
Un’autentica rivoluzione copernicana nel campo dell’educazione. La grande intuizione di don Bosco consiste nell’avere superato un metodo basato sulla repressione, e dunque sostanzialmente sanzionatorio, con un approccio teso a scongiurare il castigo, prevenendo lo slittamento verso il male. L’educatore assumeva così una centralità mai avuta e il suo ruolo si concretizzava nell’assistere il giovane, individuando prima di lui il pericolo “per porvi tosto rimedio”.
Così lo stesso Don Bosco descriveva il suo metodo:
"Il sistema repressivo consiste nel far conoscere la legge ai dipendenti e poi sorvegliarli per individuarne i trasgressori ed infliggere, ove sia necessario, la giusta punizione. Con questo sistema le parole e l’aspetto del superiore devono essere severe e piuttosto minacciose ed egli deve evitare ogni familiarità con i dipendenti. Questo sistema è facile, meno faticoso e serve specialmente nel mondo militare e in genere tra le persone adulte e mature. Diverso e direi opposto è il sistema preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un istituto e poi sorvegliare in modo che gli allievi abbiano sempre su di loro l’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e correggano amorevolmente"
Così descriveva il metodo di don Bosco lo stesso don Puglisi:
"Per i fanciulli e per i giovani egli istituì gli oratori, i collegi, gli istituti nei quali accolse un’infinità di figli della strada, di orfani, di abbandonati che seppe temprare alle future lotte della vita, che trasformò da lupi in agnelli.
Ecco il lievito che operava la trasformazione delle anime giovanili: l’amore. Amare per farsi amare, per farsi seguire. Il cuore giovanile si chiude e si ribella dinanzi alla fredda disciplina, ma si arrende e si apre, non pone resistenza alla benevolenza, alla bontà, all’amore. Egli con la sua bontà e con l’amore si faceva amare e ubbidire; persuadeva facendo appello al cuore, correggeva con benevolenza senza reprimere con gravi castighi; era pronto a sacrificarsi interamente per il bene dei suoi ragazzi; li seguiva costantemente per metterli nella morale impossibilità di fare il male.
È questo il cosiddetto metodo preventivo che consiste in una vigilanza continua ma non pesante, dolce ma oculata, nel partecipare a tutta la vita del fanciullo o del giovane, nel prevedere le difficoltà e di conseguenza saper dare le norme utili per sormontarle.
Questo il metodo col quale salvò numerose anime giovanili, col quale rese santi molti giovani"
Facciamo due esempi concreti, parlando di Bartolomeo Garelli e di Giovanni di Godrano.
Tutti i salesiani ricordano l’importanza data dal Santo all’episodio di Bartolomeo Garelli (8 dicembre 1841), un giovane manovale sorpreso a rubare in chiesa e recuperato da don Bosco. Scrive lo stesso Santo: dopo aver conosciuto questo ragazzo difficile, "pensai soprattutto ai giovani che uscivano dal carcere. Toccai con mano che i giovani che riacquistano la libertà, se trovano un amico che si prenda cura di loro, sta loro accanto nei giorni festivi, trova per loro un lavoro presso un padrone onesto, li va a trovare qualche volta lungo la settimana, dimenticano il passato e cominciano a vivere bene. Diventano onesti cittadini e buoni cristiani. Questo è l’inizio del nostro Oratorio, che fu benedetto dal Signore e crebbe come non avrei mai immaginato".
Per questo l'8 dicembre è giorno di grande festa per tutti i salesiani che ricordano proprio la "salvezza" di Bartolomeo e l'inizio del percorso che ha portato alla rete degli oratori salesiani.
Tra gli episodi che ho ricostruito relativi al periodo in cui don Puglisi fu parroco a Godrano (anni Settanta) c’è un caso molto simile; riguarda il piccolo Giovanni, figlio di una vittima della locale faida di mafia: il giovane, la cui madre lavorava a Palermo come cameriera, fu sorpreso dai carabinieri con la cassetta delle offerte rubata in chiesa. Don Pino provò invano a convincere i militari a consegnarglielo, spiegando loro che condurlo in carcere sarebbe equivalso «a iscriverlo all’università del crimine». Successivamente, ottenuta la libertà provvisoria, il parroco avvicinò il ragazzo e lo aiutò economicamente. Per mesi e mesi non gli levò più lo sguardo di dosso. Parlarono a lungo, Giovanni diventò il suo allievo preferito e lasciò perdere i furti. Quando gli altri adolescenti, non gradendo tutte queste attenzioni, iniziarono a mormorare: «Ma come? Lui ruba in chiesa e viene trattato meglio di noi?», padre Pino consigliò a tutti di andarsi a rileggere la parabola della pecorella smarrita.
In quest’ottica per i due sacerdoti non esistono soggetti irrecuperabili, ma anche nel più disgraziato c’è un punto accessibile al bene, bisogna cercare quella corda sensibile del cuore e farla vibrare. Per questo Puglisi si era fatto strada nel cuore dei giovani di Brancaccio, anche figli di mafiosi. E questo fondamentalmente è ciò che fece paura alla mafia. Per questo vollero ucciderlo.
Altro aspetto in comune è la scelta della povertà. Un tema tornato di attualità nella Chiesa, dopo che Papa Francesco, appena eletto, ha detto che vorrebbe "Una chiesa povera e per i poveri".
La povertà sia per don Bosco che per don Puglisi è una radicale scelta di vita ritenuta indispensabile per potere servire in toto Cristo e i fratelli. Giovanni Bosco diviene sacerdote il 5 giugno 1841 e subito scolpisce nel suo cuore il forte richiamo della madre, Margherita Occhiena: “Se per sventura diventerai ricco non metterò mai più piede a casa tua!”.
Pensiamo anche che Puglisi vive sulla sua pelle il Sessantotto e le critiche alla Chiesa a proposito delle sue ricchezze e dei suoi fasti.
Rispetto agli anni '50, l’epoca è completamente cambiata in pochi anni, anche il ruolo del prete nella società non è più quello di una volta. Pensando a don Bosco, Puglisi tiene fermo nella sua ispirazione il principio per il quale la Chiesa è credibile se si mantiene povera, soprattutto nel Sud dove spesso il ricco è identificato con il padrone. Un sacerdote sarà un vero pastore, un autentico testimone della carità cristiana, se non è succube dei potenti, ma protegge il debole e soccorre l’indigente, se non segue i sentieri del potere e del successo, ma abbraccia e pratica la virtù dell’umiltà, del lavoro oscuro nella profondità delle coscienze.
In una Brancaccio afflitta dalla miseria e dal degrado, l’esempio di don Pino stride con i facili guadagni con cui la malavita adesca i giovani del quartiere. Salvatore Grigoli ha ammesso di essere diventato un assassino “perché ciò gli garantiva denaro, donne, autovetture, motociclette e soprattutto uno status”.
Don Pino, invece, era un prete senza conto in banca, con le tasche vuote e la casa (popolare) piena solo di libri di filosofia e psicologia. Donava tutto il suo tempo agli altri e aveva lo scaldabagno rotto e i rubinetti che schizzavano acqua dappertutto. Gli proposero gli incarichi più gravosi, scartati da tutti e lui li accettò come a Godrano e a Brancaccio, dove arrivò dopo che sei sacerdoti avevano detto di no. Poi gli offrirono chiese nei quartieri ricchi, posti di prestigio e lui li rifiutò. "Non sono all’altezza, rimango qui tra i poveri", disse.
Don Bosco e don Puglisi rinunciarono anche alle lusinghe della vanità e del prestigio personale. Voi sapete che molti individuano in questo aspetto uno sintomo del carrierismo e del clericalismo dentro la Chiesa. E rifiutano il titolo, succede anche ai vescovi di recente. Pensiamo all'arcivescovo di Palermo che ha chiesto dall'inizio di essere chiamato solo don Corrado. Se ne parlò anche al Concilio Vaticano II ed era uno dei punti del Patto delle Catacombe.
Quando don Bosco incontrò per la prima volta Pio IX nel 1858 ricevette da questi la proposta di nominarlo monsignore. Dopo averlo ringraziato don Giovanni rispose: “Santità, che bella figura farei io quando comparissi in mezzo ai miei ragazzi vestito da monsignore! I miei figli non mi riconoscerebbero più; non oserebbero avvicinarmi e tirarmi da una parte e dall’altra come fanno adesso. Oh, quant’è meglio che resti sempre il povero don Bosco!”.
Anche don Pino disdegnava le onorificenze, chi lo frequentava ricorda ancora che se qualcuno provava a chiamarlo monsignore egli rispondeva irritato “Monsignore ciu rici a to patri!” (glielo dici a tuo padre).
C’è ancora un punto che accomuna don Bosco e don Puglisi ed è la gioia che promana dai loro sguardi, dal sorriso, dalle parole. Fin da ragazzo Giovannino Bosco fondò la “Società dell’allegria” con un regolamento che al punto 3 affermava laconicamente: essere allegri. Nella famiglia salesiana questa dimensione è divenuta parte integrante del carisma. Tutto ciò rappresenta una svolta rilevante nell’approccio educativo. Fino ad allora, infatti, era impensabile che un educatore potesse trascorrere la ricreazione con i ragazzi, giocare con loro, raccontare barzellette, esibirsi con giochi di prestigio o altri intrattenimenti esilaranti. Nei seminari o nei noviziati gli incaricati della disciplina erano tenuti ad essere rigidi, severi, sostenuti e minacciosi.
Non era soltanto una questione metodologica, per tenere i giovani sempre sulla corda, ma dottrinale: la strada della salvezza è impervia e stretta, irta di rinunce e sacrifici che richiedono una vita seria e austera. La novità di don Bosco parte proprio da qui, dal ritenere che la santità consiste invece nello stare sempre molto allegri perché la gioia vera scaturisce dalla comunione col Risorto. “Siate felici nel tempo e nell’eternità”, questo augurava ai suoi giovani don Bosco nella celebre Lettera da Roma del 1884.
E di don Pino pure la prima cosa che si ricorda è il suo sorriso. Amava raccontare barzellette, ironizzava sulla sua statura, sulle orecchie a sventola, sulle mani enormi, sulla calvizie e finanche sulle sue destinazioni pastorali. Quando lo mandarono a Godrano (mille metri sul livello del mare) disse che era diventato "il parroco più altolocato della diocesi". Quando diventò parroco a Brancaccio spiegò agli amici di essere diventato "il parroco del Papa". Perché consultando l'archivio aveva letto che nel territorio di San Gaetano risiedeva un boss dell'epoca, Michele Greco, che si faceva chiamare "il Papa della mafia".
All’origine dell'allegria di don Pino non c'è solo il suo carattere ma anche una motivazione teologica. Commentando il discorso della montagna, egli rifletteva sul fatto che le otto beatitudini riguardano il presente, anche quando il ristabilimento dell’equilibrio avverrà in futuro. Gli afflitti saranno consolati, ma sono già beati, gli affamati saranno saziati ma sono beati sin da ora. La gioia è allora connaturata al cristiano che deve essere annunciatore di un Dio “che viene a portare la gioia a tutti quanti erano nel pianto, nella sofferenza. Si rallegra per la gioia dei bambini che lo circondano. Ma si farà anche messaggero della gioia del Regno” (parole di don Puglisi).
E concludo con una preghiera composta da don Puglisi e rivolta a Don Bosco, invocazione che chiude lo scritto autografo di cui abbiamo parlato:
“O glorioso Santo, fa’ sentire anche adesso la tua opera salvifica, benedici gli educatori, suscita tra essi dei cuori che, infiammati dallo stesso amore di cui ardevi tu, rinnovino i tuoi prodigi verso la gioventù di oggi; benedici i giovani, fa’ che tutti seguendo i tuoi insegnamenti giungano all’esperienza del divino e quindi pongano i valori religiosi al di sopra di tutto; benedici le nostre famiglie, benedici tutti affinché tutti possiamo raggiungerti nella patria divina”.
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Ringrazio il prof. Nicola Filippone, preside dell'istituto Don Bosco per le sue approfondite ricerche sull'argomento, gli sono debitore.
Tutte le citazioni dagli scritti di don Puglisi sono tratte dal mio volume "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" (Rizzoli-i diritti d'autore sono devoluti in beneficenza).
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