Si è svolto a Bari dal 21 aprile 2022 il 70° congresso della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) guidata dal segretario Andrea Di Gangi dal titolo “Comprendiamo la città. La città non è il problema ma la risorsa”. Nell’aula Aldo Moro dell’Università di Bari si sono celebrati anche i 125 anni dalla nascita della Federazione ricordando le figure di Paolo Giuntella, don Pino Puglisi e Patrizia Pastore. Ne hanno parlato, rispettivamente Marco Damilano, Francesco Deliziosi e Mariarosaria Petti.
Ospiti del congresso anche don Luigi Ciotti, Pasquale Musso, Francesca Bottalico, don Davide Abascià, Vito Peragine. I lavori si sono conclusi con la santa messa in Cattedrale celebrata da mons. Giuseppe Satriano. La Presidenza nazionale della Fuci in occasione dell'evento è stata ricevuta al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella a cui ha portato la gratitudine della Federazione per la vicinanza e l’ascolto.
Don Pino Puglisi fu assistente diocesano della Fuci per cinque anni fino al 1993 quando fu ucciso. Con i giovani universitari portò avanti diverse iniziative e la Fuci collaborò con le attività a Brancaccio del parroco: una testimonianza preziosa del suo stile educativo e della sua concretezza. Su questi temi ha svolto la sua relazione il giornalista Francesco Deliziosi, allievo del sacerdote e autore per Rizzoli della biografia "Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso" e del volume "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" che raccoglie gli scritti del Beato (i diritti d'autore sono devoluti in beneficenza). Ecco la sua relazione.
di Francesco Deliziosi
Buonasera a tutti, grazie agli organizzatori del congresso per l'invito e in particolare al segretario Andrea Di Gangi. Mi pare molto significativo nell'occasione di questo 70° congresso e nel 125° anniversario della fondazione avere riservato uno spazio a padre Pino Puglisi che fu assistente della Fuci a Palermo per circa cinque anni, dal 1988 al 1993. Un rapporto intenso che fu bruscamente troncato dall'omicidio, il 15 settembre del 1993.
Un delitto di mafia che ha portato al riconoscimento del martirio nel 2013: oggi padre Pino, che ho avuto la grazia di avere come maestro per 15 anni, è un Beato della Chiesa cattolica. Ed è stato la prima vittima della mafia a essere beatificata come martire.
Di questa brusca conclusione del suo incarico alla Fuci padre Puglisi aveva un forte presentimento. Tanto che all'inizio del settembre del 1993 a uno dei giovani universitari, Salvo Palazzolo, disse al telefono: "Per quest'anno dovrete cercarvi un altro assistente". I giovani della Fuci cercarono di convincerlo, di spiegargli che tra i suoi tanti impegni si sarebbe trovato il modo di continuare gli incontri e le attività ma in cuor suo il sacerdote aveva già intuito tutto.
E il perché è presto spiegato: in quel 1993 era stato già bersagliato da minacce di morte. A maggio una bomba molotov era stata lanciata contro il portone della chiesa di San Gaetano a Brancaccio di cui era parroco. A fine giugno nella stessa notte erano state bruciate le porte di casa di tre dei suoi collaboratori, volontari del comitato Intercondominiale che con lui si battevano per i diritti civili del quartiere. Una volta era arrivato in parrocchia con un labbro spaccato: a me aveva detto che si trattava di un herpes, ad un altro che era scivolato sulle scale. Insomma, non sapeva dire le bugie e apparve chiaro che era stato aggredito e picchiato. Gli avevano tagliato gli pneumatici dell'auto, aveva ricevuto lettere e telefonate con minacce di morte. Ad agosto il prefetto lo aveva convocato per assegnargli una scorta e lui aveva rifiutato, riuscendo anche a far passare sotto silenzio in parrocchia la convocazione.
Nelle ultime settimane aveva vietato a me e ad altri di andarlo a trovare di sera a casa (cosa normalissima fino a quel momento): "Potrebbe venire qualcuno a disturbarci...", aveva detto. Per il suo compleanno, era proprio quel 15 settembre, io e mia moglie gli avevamo regalato una segreteria telefonica per filtrare le chiamate, quasi un oggetto di lusso in quel 1993. Ma non gli diedero il tempo di usarla.
Due killer lo affrontarono davanti al portone di casa quella sera. Lui rivolse a loro il suo ultimo sorriso e disse "Me l'aspettavo".
La bara di don Puglisi in cattedrale a Palermo
Ecco perché i giovani della Fuci dovevano cercarsi un altro assistente e chiudere un capitolo intenso lungo cinque anni di cui oggi ripercorriamo due delle tappe più significative che ci faranno capire molto dello stile educativo di padre Puglisi. E anche di come i ragazzi della Fuci siano stati tra i suoi collaboratori più preziosi. Vedremo infatti prima come il sacerdote abbia scritto un "Padre nostro del mafioso" contrapposto al Padre Nostro che ci ha lasciato Gesù. E poi come proprio nel corso di uno degli incontri organizzati con la Fuci a Brancaccio abbia pronunciato quella che è la sua frase più famosa: "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto".
Nel 1988 quando fu nominato assistente della Fuci, padre Puglisi si occupava del Centro diocesano vocazioni e le sue iniziative rivolte al mondo giovanile cattolico si allargavano così anche alle attività universitarie. Molto cambiò però due anni dopo quando il sacerdote fu nominato parroco a Brancaccio. I partecipanti a un incontro della Fuci ricordano una sua frase: "Ma voi volete restare qui a dibattere all'infinito sulla Chiesa, a pensare come potrebbe essere migliore, oppure volete impegnarvi in qualcosa di più concreto? Perché non venite a trovarmi a Brancaccio?". Dopo un momento di sconcerto, la gran parte accettò l'invito.
Qualcuno chiese: "Padre Puglisi, ma dove è Brancaccio?". Il quartiere era ed è talmente isolato che molti palermitani abitanti nei quartieri residenziali non sanno nemmeno come si arriva. Ai tempi di padre Puglisi occorreva superare due passaggi a livello ferroviari.
I giovani della Fuci erano in quegli anni una sorta di coscienza critica del mondo cattolico ma peccavano di concretezza. In uno scritto, a conclusione dell'esperienza di Brancaccio, gli stessi giovani ebbero a dire: "Padre Puglisi ci ha fatto uscire dal guscio di una fede vissuta in maniera esclusivamente intimistica, dalla diffidenza verso l'altro, e ci ha spinto a rischiare. Con i giovani della parrocchia abbiamo iniziato un cammino di formazione e di conversione. Scoprendo che l'attività nella periferia di Brancaccio non era un impegno straordinario ma l'ordinario che un cristiano deve fare nella vita di ogni giorno".
Tutte le riunioni della Fuci in quel periodo si concludevano con la recita del Padre Nostro. Una preghiera a volte sottovalutata nel mondo cattolico ma che – scrivono ancora i ragazzi della Fuci – è invece "un modo solenne per rinnovare un impegno, quello di vivere Cristo nelle cose di ogni giorno. Il Padre Nostro a Brancaccio è stato allora la via per diffondere Cristo e con Lui una mentalità e una cultura nuova in cui non ci sia più spazio per la schiavitù della cultura mafiosa".
Gli incontri di cui parliamo, furono organizzati nel quartiere dell'Albergheria (dove si trova la cittadella universitaria) per i ragazzi della Fuci, i giovani in generale e chiunque volesse partecipare. Si tennero dal dicembre 1992 all’aprile del 1993, ma furono pubblicizzati anche a Brancaccio con un volantino davvero esplicito (e alcuni degli abitanti parteciparono). L'iniziativa certo non passò inosservata e dagli atti dei processi sappiamo che padre Puglisi veniva spiato dai boss fin dentro la sua stessa chiesa.
Eravamo nel periodo subito dopo le stragi del 1992 e dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino l'ondata di sdegno era stata enorme. Si avvertiva in quell'autunno 1992, però, la necessità di un contributo specifico dal mondo cattolico. Una elaborazione da cui venisse fuori una presa di distanza dalla mafia da parte della Chiesa con un ragionamento teologico proprio. Il corso per la Fuci rispose a questa esigenza, in anticipo di anni rispetto ai documenti e alle prese di posizione che arrivarono dopo da parte dei vescovi siciliani e dai pontefici (ricordiamo che il primo a parlare fu Giovanni Paolo II nel maggio del 1993 a circa un anno dalla strage di Capaci).
Don Pino con Giovanni Paolo II |
Nel foglio dattiloscritto distribuito anche davanti alla chiesa di S. Gaetano si annunciava il tema: “Itinerario per una catechesi sul Padre Nostro a confronto con la cultura e la mentalità mafiosa”. Prima del calendario delle riunioni si leggeva ancora: «Il Padre Nostro come preghiera antimafia propone il recupero del significato di “Nostro” che si dilata molto al di là dell’espressione mafiosa Cosa Nostra, simbolo di chiusura».
In sostanza è come se ci fosse un Padre Nostro dei cristiani e un Padre Nostro dei mafiosi. Valori e disvalori. Padre Puglisi con l'aiuto dell’amica Lia Cerrito del movimento Presenza del Vangelo preparò un testo a quattro mani e le dispense che servirono per il corso.
Il loro obiettivo era far luce sui disvalori mafiosi, paragonandoli con i valori della vera religiosità cattolica, e spiegare tutto ciò ai giovani. Un po’ scherzandoci su, un po’ con amarezza, padre Pino formulò questa parafrasi in dialetto e la intitolò “’U patrinnostru ru picciottu” (rivolta non al Padre del cielo, naturalmente, ma al Padrino).
Parrinu
mia e ra nostra
famigghia, tu si omu d’onuri
Lu to nomi l’ha
fari arrispittari
e
tutti quanti t’avemu a ubbidiri.
Chiddu chi dici ognunu l’avi
a fari
picchì è liggi, si nun vuoli muòriri
Tu nni si patri ca nni runi pani
pani e travagghiu
e nun t’arrifardii d’arrimunnari anticchia
a cu pusseri
picchì sai ca i picciotti hannu a manciari
Cu sgarra, lu sapemu avi a pagari
Nun pirdunari vasinnò si ’nfami
ed è ’nfami cu parra e fa la spia
Chista è la leggi di sta cumpagnia
Mi raccumannu a tia, parrinu miu, liberami ri li sbirri, libera a mia e a tutti li to amici.
Sempri sarà accussì e cu fici fici.
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Padrino mio e della nostra famiglia, tu sei uomo d’onore e/ di valore, il tuo nome devi fare rispettare e tutti ti dobbiamo/ ubbidire. Quello che dici ognuno lo deve fare perché questa/è la legge se non si vuole morire. Tu sei il nostro Padre e ci dai/il pane, pane e lavoro. E non ti tiri indietro se bisogna togliere/a chi possiede, perché sai che i tuoi ragazzi devono mangiare./ Chi sbaglia, lo sappiamo, deve pagare. Non perdonare oppure/ diventi infame e infame è chi parla e fa la spia. Questa è la/ legge di questa associazione. Mi raccomando a te, Padrino,/ liberami dai poliziotti, libera me e tutti i tuoi/ amici. Sempre sarà così e quel che è stato è stato.
Rispetto del Padrino, omertà, arroganza, vincoli di vita e di morte, elogio della vendetta e della violenza, dei codici di falso onore, esaltazione dell’illegalità e della ricchezza, odio contrapposto al perdono, fatalismo a capo chino dei siciliani: con questa anti-preghiera padre Pino ci ha lasciato un’acuta e dettagliata analisi della mentalità mafiosa.
Il corso dell’Albergheria infatti non era puntato su Cosa Nostra come organizzazione ma «sulla mafiosità di quegli atteggiamenti», si legge nell’introduzione scritta a quattro mani da padre Puglisi e da Lia Cerrito, «di quei criteri di giudizio, di quei modelli di vita che ci creiamo nella quotidianità. Chi di noi non ha acceso anche solo un lumicino piccolo piccolo ai tre idoli dominanti il mondo: il denaro, il successo, il potere?».
Nella premessa al testo del corso si legge che la prima battaglia da fare è culturale, «per restituire il significato cristiano alle parole che la mafia falsa e distorce». Si citano i documenti di Giovanni Paolo II e ne viene fuori un piccolo manifesto dell’antimafia cristiana: «Malgrado certi atteggiamenti di benevolenza, protezionismo, beneficenza e religiosità, la mafia ha perduto quanto di suggestivo poteva avere e si configura sempre più come criminalità organizzata con un codice di violenza e di morte. Nella mafia si può riconoscere una di quelle strutture di peccato di cui parla Giovanni Paolo II nella Sollecitudo rei socialis (n. 36), cioè quelle realtà peccaminose che partendo dalla responsabilità dei singoli si allargano, si consolidano, si stabilizzano come un peccato diffuso e diventano situazioni condizionanti la libertà o la condotta degli altri». Padre Pino mostrava di avere le idee chiare con grande anticipo profetico: «Quella mafiosa non è solo una società (clan o cosca o famiglia), è a suo modo una cultura, un’etica, un linguaggio, un costume. Malgrado tutte le sue mimetizzazioni, si tratta di una cultura anti-evangelica e anti-cristiana, addirittura, per certi aspetti, satanica: essa stravolge termini che indicano valori positivi e cristiani come famiglia, amicizia, solidarietà, onore, dignità. Li carica di significati diametralmente opposti a quelli cristiani allo scopo di dominare con la prepotenza, la complicità, l’asservimento e il disprezzo dell’altro, il diritto-dovere di farsi giustizia da sé».
Solo nel 1994, un anno dopo il delitto, per la prima volta in un documento i vescovi siciliani hanno messo nero su bianco queste affermazioni qui anticipate dalla stessa vittima: "La mafia è una cultura anti-evangelica, mafia e vangelo sono incompatibili".
E andiamo al secondo documento dell'attività svolta da padre Puglisi con la Fuci.
Se cercate un testamento spirituale, se volete leggere un testo che riassuma le motivazioni e gli obiettivi che padre Pino si era dato a Brancaccio, eccoci al punto giusto.
Il 18 febbraio 1993 si tiene al Centro Padre Nostro (un nome scelto non a caso, come ora abbiamo capito) un incontro organizzato dalla parrocchia appunto con la Fuci.
Il tema già dice tutto: “Chiesa e mafia: la cultura del servizio e dell’amore contro la cultura del malaffare”.
Osserva il sacerdote: «C’è una illusione che non possiamo permetterci, ed è quella di poter cambiare il quartiere. Quel che si può fare è proporre un’alternativa ai modelli culturali violenti della mafia, lasciare un segno, gettare un seme nei cuori».
Potremmo dire che padre Pino era lucido e disincantato ma non per questo stanco e disilluso. C’è un passaggio anche stavolta profetico che condanna l’antimafia di facciata, quella che organizza solo convegni e cortei: «Non fermatevi alle parole, queste devono essere convalidate dai fatti, soprattutto da parte dei politici». E la discussione, verso la fine dell’incontro, “prende fuoco”, perché punta sul periodo straordinario che si stava vivendo tra '92 e '93, e cioè le inchieste della prima Tangentopoli, il coinvolgimento di tanti parlamentari, la voglia di riscatto e liberazione dalla casta e dal malaffare che pervadeva tutta l’Italia: «Sono arrivati anche in Sicilia, finalmente», dice padre Puglisi con riferimento alle inchieste. "Ripeto, quindi, che mi sembra giusto che si parli di mafia, è un’opera che si deve portare avanti nelle scuole in modo più capillare possibile. Non ci si fermi, però, ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore, attenzione, non vorrei essere frainteso. Hanno valore ma se ci si ferma a questo livello sono soltanto parole. E le parole devono essere convalidate dai fatti.
"Non è qualcosa che può trasformare il quartiere. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli di comportamento, soprattutto ai giovani, e cercare di smuovere le acque. Ma non dobbiamo illuderci: da soli non saremo noi a trasformare Brancaccio.
"Lo facciamo soltanto per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche; e dire: si può fare qualche cosa. E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto".
Grazie a tutti
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